#BellezzaContagiosa: il dilemma del paguro

La vedi. Ti vede. L’istinto è uno. Correrle incontro, abbracciarla, stringerla, sorriderle da così vicino da riuscire a vedere il suo trucco sbavato, le sfumature del suo iride, quel dente che si era spezzata all’asilo.

La musica nelle tue orecchie accompagna i tuoi passi come uno swing. Destra e sinistra. Stai ballando nella tua testa, sei leggero, ti muovi lento ma il tuo cuore corre all’impazzata. Chitarra e voce sono sempre state le note che hanno accompagnato i tuoi pensieri, le tue crisi esistenziali, i tuoi pianti e le tue grida di gioia. Un genere musicale semplice, autentico. Dove il silenzio trova spazio tra i respiri e ogni suono è aumentato, profondo, quasi un rimbombo. E poi una voce. Chiara, rauca, stridente o così sottile da diventare sussurro. Una voce nella quale perdersi, che detta il ritmo del tuo respiro. Una voce che va al di là delle parole e che dice esattamente quello che vorresti sentirti dire.

Ascolti, cammini e ti perdi. Passi che non si possono più contare, pensieri che ormai hanno superato confini territoriali e temporali. Pensieri che sono montagne dalla vetta innevata e irraggiungibile, ma allo stesso tempo sono onde che si frangono, dividendosi in mille goccioline, per poi andarsi a reincontrare sulle sponde di una spiaggia sperduta.

Ogni tanto dalla spiaggia dei tuoi pensieri passano dei vecchi pescatori. Portano reti pesanti, logorate dal mare e dalla fatica. Reti che sono vita e sono dolore, reti che salvano e che allo stesso tempo hanno fori troppo grandi per catturare le prede. Il dolore di tornare a mani vuote. Con le unghie spezzate e la pelle bruciata dal freddo, il volto rosso e la bocca asciutta. L’idea di partire di prima mattina con un obiettivo così semplice, così concreto, eppur così imprevedibile. Un po’ come il mare.

Pescatori con le rughe. Pescatori lenti ma dalle agili mani. Pescatori rumorosi, la cui voce è specchio del territorio nel quale sono cresciuti. Una voce che diventa àncora quando si naviga nel mare della solitudine. Una voce che è melodia, ma che poi diventa grido, per poi svanire all’imbrunire accompagnata dallo sciabordio delle onde sulle rocce.

Scarpe buttate accanto ad una vecchia barca di legno sulla spiaggia. Il vento ne muove le stringhe, mentre loro rimangono ferme, impassibili. Barca che ha vissuto una vita tormentata, dettata dal susseguirsi di piogge scroscianti, venti violenti e sole cocente. Barca che è stata abbandonata alla ciclicità delle stagioni. Non ha età né data di scadenza, la pittura rossa scrostata lascia intravedere i segni del tempo.

Pescatori dai piedi scalzi camminano in silenzio, ma la spiaggia registra ogni loro passo, movimento, finché il vento non arriverà a farli tornare invisibili. Uno di loro, dagli occhi azzurri e il viso contratto, si inginocchia. Immerge le mani nella sabbia, il suo viso si distende. Una conchiglia. Rosea, tonda e dall’aspetto vellutato. Sfumature grigie la penetrano fino al suo interno, la stringono forte come in una morsa dalla quale non può fuggire. Non ha spine, ma le sue estremità sono taglienti. Unica sua protezione. Il pescatore buono, ferito nel corpo ma non nell’anima, prende la conchiglia tra le mani. Il taglio sotto il suo piede sanguina timidamente. Lentamente si alza. La sabbia si fa spazio tra le sue dita e forma una cascata dorata. La conchiglia perde terreno, diventa instabile, si eleva, sempre di più, sempre più alta. Ormai è ad un metro da terra, completamente dipendente da quel pescatore dagli occhi profondi e dal cuore di latta. Si guardano.

L’ambiente è instabile ma non sembra pericoloso. Con una zampa, il paguro tasta il terreno roseo, ondulato e ruvido. Un millimetro dopo l’alto si estende del tutto. Come la gamba di una ballerina esplora con audacia e attenzione il palmo della mano di questo suo nuovo ospitante. Una seconda zampa si mette in movimento. Sempre lenta ma più veloce della prima. Qualche secondo di adattamento ed eccola distendersi dal lato opposto della conchiglia. È bello stiracchiarsi, scrocchiare le giunture e sentire l’aria fresca pizzicare il proprio corpo. E così, una dopo l’altra il paguro estende tutte le sue zampe, e a seguire, la sua testa curiosa. Mai prima d’ora aveva visto il mondo da li. Quei granelli di sabbia che sono sempre stati così grandi sono improvvisamente piccolissimi. Si amplia la prospettiva, ora vede un sasso nella sua interezza, poi la roccia, poi la spiaggia e poi… il mare. Blu come le sue chele e immenso come la sua curiosità di vedere cosa c’è al di là di quella linea all’orizzonte. Ora vorrebbe gridare. Gridare forte. Gridare così forte da poter essere sentito da tutti i suoi amici, da suo padre per il quale lui non è mai stato abbastanza, da sua madre per la quale la sua conchiglia è sempre stata troppo piccola. Da quel collega per il quale le sue chele non sono mai state abbastanza forti e da quella ragazza che l’ha sempre guardato dall’alto in basso. Ironia della sorte.

Un movimento repentino lo sorprende. La testa del paguro rientra, le chele si ritirano veloci. Movimento ondulatorio, poi sussultorio, seguito da una discesa rapida. Ha il cuore in gola e lo stomaco vuoto. Poi una pausa. Sente il caldo dei granelli di sabbia e il loro scricchiolio contro il suo guscio. È nuovamente a casa. Lo dirà a tutti, o forse a nessuno. Il pescatore si rialza e senza volgere indietro lo sguardo se ne va.

Campanello d’allarme. Forte, stridente, inaspettato. Sussulti. Così come il pescatore se ne va, la tua mente ritorna e riprende contatto con la realtà. Un ciclista ti ha appena tagliato la strada. Continua a pedalare, si gira, articola parole afone con le braccia. Ritorni in te e rivolgi lo sguardo verso di lei.

Tre metri, due, uno. Ormai siete praticamente sulla stessa mattonella, a nemmeno un respiro di distanza. Vedi i pori della sua pelle e lei vede i tuoi. Chissà com’è vedersi da così vicino. Chissà cosa vedono gli altri, cosa vedono di noi e in noi. Nessuno specchio ce lo potrà mai svelare.

L’istinto muove i tuoi muscoli, le braccia si sollevano, si aprono verso l’esterno e quasi la sfiorano. Un piede avanza, poi l’altro, ormai è un movimento inarrestabile. Lo stomaco ti si riempie delle solite sensazioni senza nome che provi quando la vedi. Eppure ti fermi. Lei ti guarda, sorride imbarazzata, fa un passo indietro. Impacciati, a disagio, tu respiri. «No a baci e abbracci in tempi di Coronavirus» cita il cartellone alla tua destra.

Fossi anche tu un paguro potresti ritirare le tue chele, la tua testa. Potresti rimanere immobile, ascoltando solo quello che ti si muove intorno. Potresti fare finta di niente. E invece le tue braccia cadono pesanti sui tuoi fianchi, i piedi simulano un tamburello, sempre meno sonoro. Socialità alterata.

Ti senti ferito. Non sei malato, non sei un virus. Sei sempre tu, quello di sempre. Quello degli abbracci rincuoranti, quello delle zuppe quando fuori nevica, quello che lei chiama alle tre di notte quando non riesce a dormire. Ma lei non ti vede più così, o forse, semplicemente, non può più vederti così. Perché la lotta tra sentimento e ragione crea un conflitto lacerante. Inizi a renderti conto dell’importanza del tatto, di quanto una mano sulla spalla possa trasmettere senso di appartenenza, di quanto spostarle i capelli dal collo sia più intimo di un bacio e di quanto l’assenza forzata di contatto ti allontani dal mondo e ti faccia sentire così tremendamente solo.

Da cinque rimangono in quattro, i tuoi sensi. Continui a guardarla e lei continua a guardare te. In una bolla di silenzio rimanete immobili per qualche secondo. Vorresti dire qualcosa, ma non sai come tradurre quei gesti in parole. Gesti semplici, parole complesse. Pensi, formuli e riformuli frasi senza punteggiatura nella tua testa. Lei si gira e se ne va.

La vedi allontanarsi lenta, ha lo stesso movimento ondeggiante che avevi assunto tu poco prima. Paguro o pescatore, paguro o pescatore? … «Hanna!». Lei si ferma, si gira. Tu metti le mani in tasca, stringi le dita attorno a quelle castagne che ormai tieni in tasca dai primi giorni d’autunno. Pensi a tuo padre e a come ti obbligasse a stringere quelle castagne quando invece avresti voluto giocare a tirarti le pellicine delle dita. A passo veloce la raggiungi. Troverai le parole, troverai il modo per dirle ciò che non hai mai avuto bisogno di esprimere a voce, troverai il modo di farla sentire vicina a te e di abbracciarla con lo sguardo. Troverai il modo di non essere paguro.

[Immagine in evidenza: Marta Sorte, dal blog https://www.linquieto.it/paguro/]

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