Il panico e i luoghi chiusi

Quando ero piccola qualunque luogo senza finestre, per quanto grande e spazioso, mi faceva mancare il fiato. Soprattutto i cinema.

Quasi due anni fa, mentre ero in una cittadina della Romania per un progetto di drammaturgia, nel corso della giornata salivo diverse volte sette piani di scale per raggiungere la mia camera in albergo. Di tanto in tanto, lungo il tragitto, uno dei due ascensori di metallo si apriva e qualcuno mi osservava con perplessità.

Quando, insieme agli altri drammaturghi, tornavamo a casa la sera, quasi sempre stanchi e sempre infreddoliti, li salutavo al piano terra e mi incamminavo per le lunghe scale. Anche se avevo tanto sonno, anche se avevo gli occhi semichiusi. Sempre.

Questo non perché io fossi così dura con me stessa da pretendere una ferrea disciplina nell’esercizio fisico (non arrivo ancora fino a questo punto estremo) ma perché il solo pensiero di mettere piede in uno di quegli ascensori di metallo mi bloccava il respiro. Ci ho provato un paio di volte, quando proprio non avevo voglia di salire tutte quelle scale, ma appena le porte scorrevoli hanno iniziato a chiudersi sono saltata fuori.

Non riesco a stare nei luoghi chiusi da quando riesco a ricordare, anche se nel tempo sono un po’ migliorata.

Peggiorare era difficile.

Sempre un altro ascensore, questa volta a Parigi, anzi, nella metropolitana di Parigi.

Non ho ancora trovato una combinazione così terrificante per la claustrofobia come l’ascensore dentro alla metropolitana. Quando abitavo a Londra ho memorizzato le stazioni che, data la loro estrema profondità (cosa alla quale cercavo di non pensare durante il viaggio sul treno) non possiedono scale mobili ma solo ascensori. Le ho accuratamente evitate. Se proprio sono stata costretta a usarle, sono salita a piedi lungo sterminate scale a chiocciola, dove ad intervalli di circa cento scalini è posizionato un cartello sul muro che ricorda ai malaugurati passeggeri che salire da quelle scale a chiocciola può essere pericoloso perché sono tante, a chiocciola, e passano rapidamente a diversi livelli di profondità. Ma sono sempre meglio dell’ascensore.

Invece, a Parigi, non c’erano soluzioni.

Ho undici anni e sono spiaccicata contro un muro della metropolitana a pochi metri dall’ascensore. Decine e decine di persone entrano ed escono dalle porte scorrevoli, corrono, camminano, lanciano qualche occhiata a me e a mio padre che siamo fermi ormai da parecchio tempo nello stesso punto.

Salire su un ascensore metallico con le porte scorrevoli è l’unico modo che c’è per prendere il trenino che ci condurrà a Disneyland. Ma io nell’ascensore non ci voglio entrare.

Ma se non lo prendo non vado a Disneyland, continua a ripetermi mio padre. Io provo a farmi forza, non ci riesco, riprovo, non riesco di nuovo. Decido che forse Disneyland è sopravvalutata, magari non mi piacerà. Non ricordo minimamente cosa facessero mia madre e mia sorella.

Alla fine il pensiero di Disneyland ha la meglio ed entro nell’ascensore. Trattengo il fiato per tutto il tragitto, sicura di restare bloccata lì dentro per sempre, senza alcuna possibilità di uscita, spiaccicata tra tutte quelle persone più alte di me che parlano in francese. Invece, dopo qualche secondo interminabile, le porte si aprono.

Anche se sono passati molti anni, rimango sempre sorpresa quando le porte di un ascensore si aprono. Non me l’aspetto mai.

Scene analoghe di me dentro a degli ascensori si sono ripetuti negli anni, provocando diverse occhiate tra il sorpreso e il preoccupato di sconosciuti compagni di ascensore.

Ma prima era molto peggio.

Prima, infatti, la claustrofobia si estendeva a una categoria molto più ampia di posti. Qualunque luogo senza finestre, per quanto grande e spazioso, rientrava nella categoria.

Ikea. La prima volta in cui ci sono andata mi sono imbarcata nell’impresa vana di trovare delle finestre lungo il percorso. Di tanto in tanto ne vedevo una, ma poi scoprivo che era finta, serviva solo per arredare le stanze.

Chiese con catacombe o altri luoghi sotterranei, ovviamente.

Grandi magazzini.

Teatri.  

Ma, soprattutto, i cinema.

Per tanti anni, da piccola, il cinema era sinonimo di estrema paura.

Quando si decideva di andare, io dovevo essere informata con largo anticipo in modo da avere tutto il tempo per prepararmi all’idea e rassicurarmi.

Il cinema era un concentrato di paure.

Il cinema non ha finestre, ma solo una o due porte, che guardavo ripetutamente prima dell’inizio del film e, spesso, anche durante il film. Ricordo un momento bellissimo, una volta in cui ero a vedere Shrek con mia madre e mia sorella, in cui una delle porte di sicurezza era stata lasciata aperta. Per qualche minuto era stato meraviglioso. Poi qualcuno si era alzato per chiuderla, perché la luce dava fastidio.

Ecco un altro problema del cinema: gli istanti di buio completo quando si spengono le luci. A me il buio completo terrorizza, mi fa mancare l’aria, mi fa pensare che sono diventata cieca e non riuscirò a vedere mai più. È vero, dura molto poco, ma, mi chiedevo, che cosa succede se c’è un guasto e restiamo in questo buio?

Oppure, per un lungo periodo ho avuto paura che mi dessero un posto troppo vicino allo schermo, causandomi in questo modo un grave e immediato problema agli occhi. Chiedevo a mia madre di prendere i biglietti più lontani, di informarsi su quante fossero le file totali della sala e di chiedere come funzionasse la numerazione, così da sapere in anticipo dove ci avrebbero fatto sedere. Stare troppo vicina alle casse del suono, inoltre, avrebbe potuto produrre effetti irreversibili sulle mie orecchie. Anche quello andava scongiurato.

Non andavo spesso al cinema, perché era molto faticoso.

Se qualcuno mi invitava al cinema, il cuore iniziava a battermi all’impazzata.

Poi, in terza media, la mia insegnante di kung fu ci ha portato a vedere L’ultimo samurai. La sala era molto piccola, e per far sedere una decina di ragazzini tutti vicini ci avevano dovuto dare una delle prime file della sala. Io avevo trattenuto il fiato, ma lui aveva continuato a uscire come al solito.

Ci eravamo seduti, e il mio cuore non aveva iniziato a battere troppo forte.

Il film era iniziato, e non ero diventata sorda.

Era finito, e non avevo un problema agli occhi.

Dall’anno successivo ho iniziato ad andare al cinema ogni settimana. Stilavo una lista di tutti i film che volevo vedere, divisi per cinema ed orari, e mi angosciavo al pensiero di non riuscire a vederli tutti.

Ma questa è un’altra storia.

Non perderti nemmeno una briciola di bellezza resistente.