Il panico e i suoi metodi per la tristezza

Quando sono triste provo a controllare tutte le cose che ho intorno. Ma il mondo non ha tanta voglia di essere controllato.

Quando sono triste controllo tutto.

O, almeno, ci provo. Spesso non è possibile. Ma io ci provo lo stesso, anche se forse è proprio la pretesa di voler controllare tutto a farmi stare peggio. Ma non ne sono sicura.

Non so se tutti hanno un proprio tipo di comportamento, una modalità da applicare per provare a non sentire la tristezza. O, più che per non sentirla, per riuscire a fare lo slalom e a non cascarci proprio dentro, dalla testa ai piedi.

La mia modalità è provare a controllare le cose piccole, quelle che mi sembrano controllabili. Cose che si trovano intorno a me e che mi sembrano sicure. E che, quando le faccio, mi fanno stare bene.

Inutile dire che il mondo non ha tanta voglia di essere controllato.

Mercoledì mi sono svegliata relativamente tardi (non credo che svegliarsi alle 6.45 si possa considerare tardi in senso assoluto), dopo una notte in cui avevo faticato a dormire. Come dico anche qui, a me non capita mai di non riuscire a dormire, e quando accade non lo so gestire.

Quando capita, io mi odio.

Mi critico perché penso che la colpa sia solo mia. Se non dormo, devo aver sbagliato qualcosa. Che poi, io odio dormire senza svegliarmi mai durante la notte, perché mi terrorizza l’idea di perdere coscienza per così tante ore di seguito. Ma c’è una via di mezzo.

Un conto è dormire, svegliarsi (e così controllare di essere viva), dormire, svegliarsi di nuovo (e ricontrollare di essere viva), dormire ancora, e un conto è non dormire per niente. Non riesco neanche ad alzarmi e a fare qualcos’altro, riesco solo a stare a letto a criticarmi. Le critiche mi rendono sempre più sveglia e allora mi critico sempre di più.

A un certo punto di questa spirale il sonno ha la meglio.

Mercoledì quindi mi sono alzata un po’ stanca e strana e non sono riuscita ad andare a correre.

Correre a Villa Ada la mattina presto è una delle cose piccole con cui io cerco di controllare la mia tristezza. Con cui cerco di placare l’ansia, il dispiacere, il dolore. Solo che, in questo tentativo di controllo assoluto, spesso rimango schiacciata.

Mercoledì ho passato la giornata a guardare il cielo azzurro brillante e a considerarlo un oltraggio, un esempio di come avessi sbagliato a non sfruttare il sole per correre.

Mi sono criticata.

Il giorno dopo sapevo che, per un impegno, non sarei potuta andare a correre.

Ma poi, un cambio di programma all’ultimo minuto ha modificato tutto e mi ha rivelato che, se l’avessi saputo, sarei potuta andare a correre.

Mi sono criticata per non aver previsto e prevenuto l’imprevisto.

E sono scoppiata a piangere. A. mi guardava con un’espressione stupita, e allora gli ho dovuto spiegare che il punto non era la corsa. Anche se il punto era, la corsa. Lo era e non lo era. Era la corsa nei momenti in cui tutto è un po’ nero.

Ho passato un’altra giornata ad osservare con rabbia il cielo azzurro e a criticarmi.

Pensando che, se salto una cosa che mi piace fare, non sarò intitolata a farla mai più. Potrebbe piovere ininterrottamente per settimane. Villa Ada potrebbe sprofondare nelle viscere della Terra.

A un certo punto le critiche per non aver fatto una cosa che placa il dolore sono diventate un nuovo motivo di dolore. Ma di un tipo ben diverso.

Forse è solo che ho creato un dolore nuovo, fatto di ansia e paura, fatto di cose piccole. Fatto di mie reazioni alle cose, e che conosco meglio, al contrario di altri dolori.

Provo a controllare le cose per non sentire la tristezza, ma se non va bene e non riesco a controllarle, allora sto peggio e, alla fine, non sento più la tristezza iniziale. In qualche modo, ne sono uscita lo stesso. Non sono sicura sia il metodo giusto, ma non riesco neanche ad affermare che sia fallimentare in assoluto.

Il giorno dopo sono andata a correre e il cielo era grigio e brutto e ad un certo punto c’erano anche delle piccole goccioline. Era anche molto bello e Villa Ada non è sprofondata.

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