Accettare la vulnerabilità

«Ho il terrore di essere scoperta. Ma a volte mi trovo a desiderare che accada e che sia brutale e inevitabile. In modo vero, però, in modo giusto. In un modo che non faccia male. Mi spiego?», ho detto un giorno al mio  psicoterapeuta durante una seduta. «Secondo te è possibile, mostrarsi senza paura di perdere il controllo o essere feriti?»

«Il punto non è se è possibile ma quanto sei disposta a rischiare per questo», risponde lui.

«Credo molto poco, al momento».

Silenzio. Mi ricordo del mio corpo sprofondato sul divano, delle dita tra i capelli e dell’amarezza raccolta in gola come sabbia antica.

«Cos’è che vorresti, più di tutto?»

«Essere vista per ciò che sono davvero senza che questo mi si ritorca contro. Senza aspettative, tentativi di controllo, pretese. La gente, la maggior parte, crede che se hai rivelato anche solo un pezzo di te allora può prenderlo e farci il cazzo che ci pare. Crede di aver trovato la chiave d’interpretazione di tutto e comincia a smettere di guardarti, ascoltarti, per leggerti secondo quell’unica lente, funzionale alla propria narrativa e ai propri bisogni. Allora smetti di essere tu, smetto di essere io e ricomincio a scappare, ancora, perché non ci sto. Non è questo che voglio, se rivelarsi significa questo allora preferisco continuare a sembrare una lastra di ghiaccio senza emozioni, piuttosto che perdermi»

«E ti piace sentirti così?»

«No, mi fa schifo. Ma almeno sto al sicuro».

Silenzio di nuovo.

Non so perché, ma ricordo che in quel momento ho visualizzato nella testa una rete fittissima di fili della luce, aggrovigliati tra loro e piantati come filari a perdita d’occhio. Una landa sconfinata di cavi neri che corre verso l’orizzonte e non si capisce più dove finisca. Questa immagine lì per lì mi ha fatto salire una tristezza assoluta. Vai a capire.

Quando stai mentendo al tuo psicoterapeuta non ce n’è. Ti sgama sempre, ma te lo fa capire dolcemente. Ed io stavo mentendo, perché dietro a tutta quella supponenza e dissimulazione c’era una sola verità che sentivo sbranarmi lo stomaco e il petto, farsi spazio tra paure e ostentata ed esasperata autonomia: essere così non mi faceva semplicemente schifo, mi divorava dentro, mi uccideva lentamente, lasciandomi vuota come un guscio inerte ed inutile. Dover rinunciare a se stessi, murarsi nel proprio bunker mentale ed emotivo, d’altronde, significa dover rinunciare a tutto, non solo a ciò che vogliamo reprimere, magari anche a ragione, ma anche a ciò che vorrebbe espandersi e fiorire. Significa mutilare l’orrido, ma anche il desiderio, la gioia, la bellezza.

E’ stato quel giorno di qualche anno fa che ho avuto il coraggio di essere onesta con me stessa e ammettere che nel tentativo di riappropriami di me mi ero persa di nuovo, semplicemente in modo diverso. Che stavo diventando una persona totalmente incapace di abbassare le difese anche solo per un momento e rischiare di farmi trasparente allo sguardo dell’altro, di permettere anche ad una sola stilla di emozione o parvenza di sentimento di penetrarmi e ammorbidirmi. L’odio, l’amore, la rabbia, la passione, l’affetto, la speranza: tutto rinnegato, nell’illusione di poter mantenere il controllo ad ogni passo.

Mi sono trasformata in una lama di coltello e ho iniziato a giocare al contrario, respingendo qualsiasi cosa arrivasse troppo vicina a me. Mi sono nutrita per anni dell’idea di essere troppo incasinata, troppo complessa e problematica per permettere a qualcuno anche solo di graffiarla appena la mia muraglia. Sotto questa coltre si nascondeva semplicemente disprezzo, di base per me stessa, e paura, paura di trovarmi ancora nella orribile condizione di dover giustificare il mio “male”, di sentirmi in colpa per questo, di trovarmi – peggio – rinchiusa nel recinto asfissiante dell’idealizzazione o della vittimizzazione. Flash mi hanno perseguitato a lungo, frammenti di ricordi di me esausta, spezzata, riflessa in uno specchio che mi era stato posto davanti a forza, o dritta su un piedistallo nello sforzo di essere perfetta, perché l’altro aveva già deciso così per me. Persone che hanno avuto la pretesa di volermi salvare, persone che hanno avuto l’arroganza di voler riscrivere la mia storia e raccontarMI chi io fossi, invece di dare spazio e tempo affinché potessi farlo io stessa. E questo per cercare, allo stesso momento, di colmare i propri vuoti e insicurezze.

Tutte le volte che ho provato a essere vulnerabile, almeno un po’, è andata così. E quindi ecco, quando capita questo, e quando capita a una persona come me, l’istinto ti dice solo una cosa: tirati fuori da tutto, non ne vale la pena. Ma è un istinto tossico, una lama a doppio taglio che prima o poi ti scivola dalle mani e ti ritrovi col petto squarciato e ti chiedi come cazzo è potuto succedere. Come ci sei arrivata a diventare così, o almeno a illuderti di esserlo: senza cuore, senza passione. Glaciale e impassibile a tutto.

«Hai messo dei muri invalicabili tra te e il mondo, ma al di là io ho visto una forte intensità interiore dal momento in cui hai messo piede qui dentro, accompagnata da una forte consapevolezza. E un grande bisogno di connessione, di vera connessione»

«Un contatto…»

Di nuovo l’immagine dei cavi. E questa volta mi manda in tilt il cervello.

«E’ vero, ho ammesso, è l’unica cosa che voglio davvero»

«Per instaurare un contatto bisogna accettare la propria vulnerabilità e rischiare di mostrarla all’altro. Tutto sta nel capire quando ne vale la pena. Ma se non l’accetti tu, se hai l’arroganza di pensare che nessuno potrebbe mai accoglierla senza sovrascriverla, allora non riuscirai mai a fare il passo successivo»

Sono tornata a casa quel giorno intontita e confusa da quella botta di verità. La sera ho guardato un video che il mio psicoterapeuta mi aveva consigliato. Il potere della vulnerabilità, il TED Speech di Brené Brown, storyteller e ricercatrice americana. Nel suo discorso, Brown spiega come reprimere la vulnerabilità sia una delle strade più veloci per l’infelicità. Questo perché non possiamo selezionare le emozioni da provare, non siamo automi, e sopprimendo quelle negative, di conseguenza rinunciamo anche a quelle positive.

Ho rigirato questa verità tra le mani per settimane, mesi, anni. E’ ancora qui, che saltella dalla mia destra alla sinistra, che s’impiglia tra le dita. Questo per dire che ci sto lavorando, che la paura spesso mi prende di nuovo e la tentazione di rinchiudermi nel bunker e rinunciare al cuore, sono sincera, m’assale ancora più del dovuto. Ma resta lì, ho imparato a non darle ascolto, almeno non come prima, a lasciarmi andare un po’ di più e seguire il consiglio di Brené. Perché è vero: l’unico modo che abbiamo per conquistare anche una sola porzione di gioia, amore, autenticità in questo mondo del cazzo è accettare in primis la nostra vulnerabilità – qualunque volto abbia – e accettare la possibilità che, non dico sempre, ma qualche volta, valga la pena lasciarsi osservare, profondamente, in modo vulnerabile, da qualcuno.

Solo così si può essere grati, ma grati davvero, anche per il terrore, il dolore e l’incertezza, perché sappiamo che dall’altra parte c’è la vita. E ci siamo noi – vivi. E la più grande lezione appresa negli ultimi due anni è stata capire che più mi sforzo di mantenermi al sicuro ad ogni costo, più mi taglio inevitabilmente fuori dalla gioia, dalla possibilità di un contatto autentico, dal desiderio che colora la vita di rischio, sì, ma anche bellezza.

Che essere vulnerabili spaventa, ma spaventa molto di più la prospettiva di una vita priva di tutto ciò.

 

[Questa ed altre storie ogni venerdì sempre nella sezione ConsapevolMente. Per recuperare le altre puntate qui]

 

Non perderti nemmeno una briciola di bellezza resistente.