L’altro ieri facciamo visita a un’ala dell’ospedale in costruzione di Qalat per valutare la possibilità di sostenere l’ultima fase del cantiere e poi prendere in carico la gestione dei reparti di ginecologia e nutrizione.
I corridoi impolverati sono pieni di letti arrugginiti e macchine in disuso, incrostate dal tempo e ammaccate qui e lì. In un angolo, un incubatore per neonati mostra tra i fori in cui inserire le mani di mamme e infermiere uno squarcio obliquo, una specie di sorriso triste a che ne disegna macabramente l’inutilizzo. Tra le grinze della crepa, una leggera pioggia di gocce incrostate color ocra.
Il dottore che ci accompagna racconta che tutto il materiale è stato portato via da un ospedale della zona dove nel 2019 erano state fatte esplodere una serie di bombe. Pare che l’esercito volesse sferrare un attacco alla vicina sede dei servizi d’intelligence e nella foga abbia tirato dentro anche la clinica.
Ci ha mostrato le foto. Le macerie a coprire pozzanghere di sangue e fango, culle in metallo affossate da una coperta spessa di polvere e calcinacci, uno squarcio grande quanto la parete a fare luce su quella che una volta doveva essere una sala operatoria.
Si ferma sulla foto di un cubo di metallo della misura di una scatola per scarpe, “questo è il tester per il dna, si utilizza per vedere il corredo genetico dei feti, non so bene come ma è l’unico macchinario sopravvissuto e ancora funzionante”.
Ci muoviamo lenti nel cimitero di tubi smaltati e tralicci di ferro ingrigito. Il battito rincorre il ritmo delle vite che ognuno di quei macchinari ha contribuito a salvare, il respiro rallenta di fronte alla consapevolezza scheletrica dello scenario di fronte.
Mi fermo vicino all’incubatore tagliato in due. Le gocce di sangue formano una sorta di corona attorno allo squarcio centrale. Le conto, sono dodici. Dodici piccole nuvole color terra. Il suono del tonfo del calcinaccio che spezza il lettino entra nelle orecchie. Il tanfo asfissiante della polvere appesantisce l’aria.
Chissà se il neonato dormiva quando la granata ha frantumato il soffitto. O forse già piangeva cercando la pace santa del seno della mamma, mentre il suono dei mitra rompeva ritmicamente il silenzio del reparto. Per un attimo le piccole pupille molli di paura sbattono con le mie, avverto la patina debole della loro incoscienza, lo spavento durato qualche secondo. Poi il silenzio, le grida di allarme.
La voce calda del dottore ci invita a seguire la visita tra le ombre del cantiere, c’è il secondo piano da vedere, potrebbe essere lo spazio ideale per il reparto nutrizionale.
Esco dalla stanza e le immagini restano stampate lì, si mescolano a quelle che abitano il presente in altri fazzoletti di mondo.
Cosa pensava l’artigliere con la granata in mano nell’istante in cui l’ha lasciata scivolare dalla finestra dell’ospedale? Avrà avuto la fotografia del suo di figlio ripiegata in una tasca della divisa? Come si sarà sentito ascoltando il pianto di un neonato, di quel neonato, trasformarsi in silenzio e polvere?
“È desolante che sia così questo ospedale, abbiamo centinaia di pazienti ogni giorno e non sappiamo dove farli andare. Speriamo di poterlo utilizzare presto, di ridare vita a questi macchinari fermi”.
L’augurio del dottore lascia un’eco di mesta speranza nel corridoio impolverato.
Le mura sembrano aprirsi su tutti gli ospedali sventrati dall’indifferenza di una bomba, ovunque nel mondo. Un filo di silenzio e calcinacci che racconta l’abominio di un luogo santo ridotto a una catasta di rottami.
In mezzo, dodici gocce di sangue a disegnare una corona di nuvole. E un tester del dna ancora funzionante.
Qualcosa rimane oltre le macerie.