Muhammed ha uno sguardo profondo e muove in continuazione le mani ossute quando parla. La pelle è quella indurita tipica di chi ha passato anni tra i campi di mandorlo del sud e le labbra insecchite non smettono di aprirsi in sorrisi pieni d’intesa.
Ci spalanca il cancello di ferro arrugginito del cortile e le pupille profonde si rabbuiano mostrandoci le capanne di plastica e bastoni di legno davanti.
“Qui ci vivono più di venti famiglie, una ottantina di persone. Da quando siamo stati cacciati sono passati quattro mesi. Sopravviviamo alla giornata e bruciamo nelle stufe quello che troviamo per strada. Il freddo si sente uguale, soprattutto prima dell’alba”.
Muhammed è emigrato in Pakistan insieme alla famiglia ventidue anni fa, quando l’invasione statunitense ha acceso l’eco di un nuovo conflitto e la sicurezza nel sud del paese era tornata ad essere un miraggio lontano.
Si è portato dietro ogni cosa, consapevole che le speranze di rientrare si sarebbero spente presto sotto macerie e ritmi di mitra.
In Pakistan ha iniziato una nuova vita, tirato su un piccolo commercio di alimentari e dato alla luce un paio di figli. Una vita come tante, scandita dal tempo stretto di una povertà che non ha fatto mancare l’indispensabile; fino a quando ad ottobre dello scorso anno il governo pakistano ha deciso di espellere tutte le persone afgane prive di documenti.
Senza porsi l’impiccio di chiedere da quanto fossero nel paese, senza domandarsi cosa sarebbe avvenuto di loro una volta tornati in una terra divenuta sconosciuta dopo decine d’anni d’esilio.
Un “piano di deportazione forzata”, come definito dai rappresentanti dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, che ha gettato nel baratro di una scelta senza speranza 1.4 milioni di persone, cittadine nel paese da decenni pur non avendo mai avuto accesso alla documentazione legale.
Così, d’emblée, senza grandi complimenti, Muhammed e la sua famiglia di otto persone si è ritrovata costretta a lasciare quella che per ventidue anni è stata la sua casa.
Tornati in Afghanistan con l’inverno alle porte, non hanno trovato altro riparo se non un cortile scoperto e un tetto di plastica; una latrina da dividere con settanta persone e la necessità costante di arrangiarsi per rimediare un piatto di patate e pane secco a fine giornata.
“Non sappiamo dove andremo. Per ora siamo qui, ci aiutiamo e ci aiuta Allah. Domani vedremo che fare”.
La risposta delle organizzazioni internazionali non si è fatta attendere. Sin dal primo periodo dell’emergenza tra novembre e dicembre 2023, sono stati allestiti due campi per rifugiati nelle città di confine di Torkham e Spin Boldak. Sotto il coordinamento dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), più di quindici organizzazioni non governative hanno preso parte a un comitato di intervento offrendo cure mediche di emergenza e pacchetti economici per far fronte almeno alle prime esigenze legate al rientro.
Nonostante l’intervento realizzato grazie ai finanziamenti internazionali in coordinamento con le autorità governative, le risorse non sono sufficienti per far fronte all’ondata di rifugiati. Il rischio maggiore è legato alla cronicizzazione della situazione. La vita in campi profughi informali come quello alla periferia di Spin Boldak può comportare l’aumento del rischio di diffusione di epidemie di tubercolosi e colera, oltra a gettare soprattutto i bambini sotto i cinque anni nel pericolo costante di uno stato di malnutrizione acuta.
Secondo un report diffuso dalla ong Islamic Relief, quasi un terzo dei nuovi rimpatriati soffre di grave carenza di cibo e quasi due su tre riferiscono problemi di salute come diarrea e altri disturbi gastrointestinali.
“La situazione è disperata, la maggior parte delle persone ci ha detto che sono state costrette a lasciare il Pakistan in poche ore e abbandonare dietro di sé beni e risparmi”, ha dichiarato Maria Moita, capo missione dell’OIM in Afghanistan.
Come Muhammed, sino ad oggi sono mezzo milione gli afgani espulsi dal Pakistan da novembre ad oggi costretti a vivere da rifugiati nel proprio paese.
Mezzo milioni di vite scandite dal ritmo spezzato dell’urgenza di sopravvivere alla giornata. Mezzo milione di storie umiliate da un ritorno a casa senza alcuna casa.
Nel silenzio di un mondo assuefatto da turbini di notizie, preoccupazioni internazionali e malcelati interessi, gli occhi profondi di Muhammed raccontano la tragedia muta dell’ennesima sconfitta a cui un paio di mani ossute piene di fare non sanno arrendersi.