Di Xanax, 15 anni e pandemia

"Prendetevi uno Xanax e finitela di lamentarvi" è la classica frase che accompagna qualsiasi discorso sul disagio psicologico in pandemia. Una frase che racconta l'incapacità di una intera società di farsi carico e custodire la fragilità.

Prendetevi uno Xanax e finitela di lamentarvi. Questo è un commento che ho letto qualche giorno fa. È comparso sul mio feed, splendente in tutta la sua ottusa violenza, sotto ad un articolo che denunciava la situazione critica in cui versa la salute mentale dei giovani e giovanissimi in quest’era pandemica: attacchi di panico aumentati del 10%, ansia, stati depressivi, demotivazione. Sono mesi che psicolog*, psichiatr* e altr* professionist* del settore ci stanno avvisando su quello che dovremo affrontare una volta rientrata l’onda lunga del virus: un’emergenza psicologica, i cui segnali sono già visibili.

Eppure tutto tace. Questo silenzio mette in luce ancora una volta lo stigma che pervade la nostra società quando si prova a parlare di salute mentale, così come la mancanza di consapevolezze e strumenti, ma soprattutto empatia, anche solo per riconoscerlo come problema. E si sa: ciò che non è nominato e problematizzato semplicemente non esiste.

380 likes a questo commento. Prendetevi uno Xanax e smettetela di frignare. Questa l’indicazione, rivolta a ragazzini e ragazzine di 13, 14, 15 anni. Non lamentatevi perché questa situazione è anche colpa vostra, dei vostri assembramenti sconsiderati, della vostra mancanza di responsabilità di adolescenti stupidi e gioventù bruciata, tuonavano altri utenti. Mi chiedo sempre come ci si possa aspettare da ragazzini e ragazzine la capacità di gestire l’impatto fisico, sociale e psicologico che questa pandemia sta avendo su ciascun*, quando nemmeno noi ne siamo in grado. Mi chiedo come ci si possa aspettare da loro responsabilità e consapevolezza, lucidità e maturità, se tutto ciò che abbiamo saputo offrire loro in questi mesi è giudizio, silenzio, rabbia, incompetenza e insensibilità nel trattare seriamente il dramma della scuola e di una vita relazionale letteralmente fatta a pezzi. Chi sta parlando agli/lle adolescenti, davvero?

Ho una sorella di 15 anni e la vedo ogni giorno barcamenarsi tra Dad e chat whapp, passare dal divano al letto al divano. La vedo spaesata e confusa quando mette piede fuori casa, perché non è più abituata a stare all’aria aperta, a vivere la strada e la socialità. “Mi gira la testa“, mi ha detto qualche giorno fa, mentre passeggiavamo respirando aria fresca, per una via vuota di un piccolo centro che sembrava essersi allargata a dismisura. “Anche a me“, le ho risposto, mentre le stringevo forte la mano. Abbiamo camminato cantando le nostre canzoni preferite. Ma eravamo tristi. Volevamo tornare a casa.

Spesso mi rendo conto che è proprio mia sorella, paradossalmente, a incoraggiarmi. A donarmi un sorriso limpido, pieno dell’ingenuità e della tenerezza di quell’età incantata ma spaventosa, ricca di cambiamenti e scoperte, che lei sta vivendo a metà, chiusa tra quattro pareti di una camera. La vedo tentare di riempirsi le giornate di creatività, colori e musica, mentre guarda fuori dalla finestra aspettando la neve, “se nevica usciamo a giocare, questo non possono vietarcelo, vero?”, mi chiede un po’ allarmata. La sento agitarsi di notte dalla stanza, alzarsi decine di volte senza sapere il perché, mentre io sono sveglia alla quarta settimana di insonnia, quella dannata bestia che si è ripresentata più stronza di prima.

Quando è lei, senza saperlo, a consolarmi, mi sento terribilmente in colpa. Questo dovrebbe essere il mio ruolo, mi dico. Allora mi sforzo anche io di aiutarla a riempire le sue giornate di creatività, colori e musica, anche se fuori è grigio e sul mio telefono compaiono solo notifiche di notizie orribili. E aiutando lei, in fondo, non faccio che aiutare anche me stessa, riempiendo anche le mie ore di un po’ di bellezza, di un appiglio alla vita, ai desideri.

La sera le preparo sempre una tisana con un cucchiaino di miele e le dico che non deve preoccuparsi, andrà sicuramente meglio. “Ormai sei grande, quando finisce tutto ti porto al tuo primo concerto. Balleremo, ci saranno coriandoli e ci divertiremo tantissimo“, le dico.

Ripenso al mio primo concerto. Ripenso ai miei pomeriggi da 15enne, colmi di quella sensazione elettrizzante di avere tutto il mondo e una gamma di esperienze e sensazioni inesplorate davanti, ad aspettarmi. Una luce, una leggerezza che non rivedo negli occhi di mia sorella.

Perché non prendi qualcosa per dormire?”, mi ha detto mia madre qualche sera fa, dopo l’ennesima giornata di occhiaie e ansia diffusa. “Lo sai perché“, le ho detto. Negli anni ho sviluppato un rifiuto verso psicofarmaci, ansiolitici e compagnia bella. So che non è forse corretto pensarla così, e parlo solo per me, ma la mia prima esperienza a riguardo non è stata affatto positiva.

Avevo 23 anni – o 21, 22, 19 forse? non ricordo bene nulla di quel periodo – e un tizio col camice, dall’aria fredda e insofferente, mi prescrisse roba dopo 10-15 min di conversazione, qualche test e domanda sparsa. Sei depressa, ti serve questo, tieni. Ricordo lo studio, il suo naso umido, l’odore asettico della stanza, l’orribile pianta di plastica sulla scrivania. Ricordo gente che entrava e usciva come nulla fosse, la porta semi aperta, la mia vergogna perché avevo appena detto parole che suonavano terribili in bocca ad una 20enne, eppure il tipo non ne sembrava affatto sconvolto e questo mi gettò addosso una sensazione strana.

Ecco. Ho ripensato a tutto questo quando ho letto quel commento, l’altro giorno. Prendetevi uno Xanax e non rompeteci i coglioni, perché c’è chi sta messo peggio, perché i vostri nonni hanno fatto la guerra e mica si lamentavano, perché siete solo viziati, perché avete tutto e vi lamentate, perche siete i figli e le figlie di errori e vuoti a cui non vogliamo pensare. Non ci pensavamo prima, figuriamoci ora.

La violenza di queste parole mi è rimasta incollata fino ad oggi addosso, la sento anche ora. Mi deprime nella sua superficialità, nella sua banalità. Perché il problema non è nell’aver bisogno o meno di un aiuto farmacologico. Questa è una possibilità che ben venga ci sia e anzi dovremmo lavorare, dall’altro lato, per normalizzarla, liberandola dal senso di vergogna e colpa che spesso l’accompagna.

Il problema è quando cominciamo a pensare che la prima – e più semplice – risposta ad un disagio debba essere lo Xanax. È quando usiamo questa roba come scusa per non affrontare conversazioni difficili. È lì che fallisce una comunità. Ed è un fallimento che appartiene a tutti e tutte.

Sento ora mia sorella nell’altra stanza che ascolta una canzone che le ho fatto conoscere io qualche tempo fa ed è subito diventata la sua preferita. Questa canzone è in coreano, tradotta dice:

Il mio cuore si stringe e spesso rimango senza parole […]

arrivo a casa, mi sdraio sul letto

e mi chiedo “è stata colpa mia?”

la notte è caotica, all’improvviso guardo l’ora

è quasi mezzanotte

cambierà qualcosa?

Probabilmente non succederà

ma almeno questo giorno sta finendo, non è vero?

quando la lancetta dei secondi e quella dei minuti si sovrappongono

Il mondo trattiene il respiro per un breve istante

a mezzanotte

e allora sarai felice

e allora sarai felice

come la neve appena caduta

respiriamo, come facevamo all’inizio

cambia tutto

tutto è nuovo a mezzanotte

possa iniziare una nuova canzone

quando questa finirà

sperando che sarò un po’ più felice“.

 

Ce lo ricorderemo a vicenda, stanotte.

Senza Xanax.

 

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✍️ Illustrazione: LA Johnson/NPR

Non perderti nemmeno una briciola di bellezza resistente.