Kreshma, poetessa afgana che canta la resistenza di ogni sorella

Nei versi di Kreshma troviamo la sofferenza e rabbia di ogni donna in Afghanistan. Un grido di lotta che oggi può trasformarsi in simbolo di resistenza grazie alla possibilità di pubblicare il suo manoscritto. Già nel titolo, il senso di ogni sillaba: ‘Odi la voce della fanciulla afgana in gabbia?’.

Esattamente un anno fa ci siamo conosciuti tra le strade grigie di un inverno pungente nella periferia popolare di Kabul, in Afghanistan.

Era una mattinata piena di un sole pallido e lei indossava una mascherina scura che le copriva tutto il volto fino all’hijab, lasciando scoperti solo gli occhi. Occhi scuri, profondi, che raramente incrociavano i miei ma che quando lo facevano lasciavano impresso un alone di irrequietezza.

Kreshma osserva le vallate brulle di Bamyan, in Afghanistan (2024).

Nelle due settimane seguenti, insieme al papà ed Elena (e Sami, nella sua pancia), abbiamo vissuto un tempo sospeso e denso girando in macchina tra i picchi scoscesi dell’Afghanistan del nord. Mazar, Bamyan, il passo del Salangan, capanne di fango divenute casa, cene frugali su tappeti ricamati per rompere il digiuno del Ramadan; ovunque, una famiglia allargata pronta ad allungarsi un po’ più in là ad ogni vallata.

Nei momenti di pausa dal tragitto, la vedevamo spesso allontanarsi di qualche metro e fermarsi a contemplare con sguardo raccolto un punto indecifrabile al di là dell’orizzonte; poi, in auto, tirare fuori il telefonino dalla tasca per prendere appunti con un tamburellare deciso delle dita. Gli occhi irrequieti che di tanto in tanto lasciavano lo schermo graffiato e si alzavano a frugare tra le vallate brulle distese al di fuori del finestrino. Come alla ricerca di una risposta, come in preghiera.

Alle nostre domande di solito rispondeva in maniera lapidaria e poetica, con un inglese semplice e dritto al punto. Scrivo, è il mio modo per dare spazio a pensieri che non hanno il permesso di vivere al di fuori, almeno non qui’.

In quei momenti spesso lasciava che i suoi occhi incrociassero quelli di Elena con fare timido e serio, lì a voler trasmettere da donna a donna il significato di una libertà costruita con le parole e ancora rinchiusa nelle fessure del tempo. Di quel tempo.

La campagna nei pressi di Polikomri, Afghanistan, sulla strada verso Mazar El Sharif (2024).

Finito il viaggio, ci siamo salutati con la promessa di continuare a tessere i fili del nostro legame e la speranza di poter ricevere un giorno presto il manoscritto dei suoi racconti ancora stretti nello schermo malconcio del telefonino.

Oggi quella promessa è divenuta presente.

Kreshma ci ha inoltrato la prima parte del suo manoscritto. 93 pagine in cui è racchiusa la voce muta di milione di donne afgane. 93 pagine di consapevolezza sotto il peso insostenibile di un machismo smisurato divenuto legge.

Già nel titolo risuonano i contorni larghi dei suoi occhi densi di irrequietezza, incapaci di arrendersi ai legacci del presente. ‘Odi la voce della fanciulla afgana in gabbia?’.

Un frastuono silenzioso di giornate ed emozioni interrotte dal segno nero della storia piovuto dall’alto come una condanna.

Il susseguirsi quotidiano degli atti di una carcerazione delle ore a cui resiste lo sguardo torturato ed eppure ancora libero.

Riportiamo in basso una delle poesie presenti nel manoscritto, tradotta dal farsi dalla preziosa Rabeah Mashinchi. In questo momento stiamo cercando case editrici, possibilmente con un passato editoriale legato a questioni di genere o a dinamiche storiche relative all’Asia Centrale, interessate alla pubblicazione dell’opera e a supportare Kreshma nella visibilizzazione della sua storia di sofferenza e resistenza.

Se tra i tuoi contatti ce ne sono alcuni potenzialmente interessati, sentiti libero/a di comunicarlo e saremo felici di condividere il manoscritto appena tradotto.

Gli occhi irrequieti e sognanti di Kreshma aspettano di posarsi su un nuovo presente di giustizia. Nel mentre, le sue parole appuntite sono lì a ricordarci tutto il tempo che manca e l’urgenza universale di avvertire sulla pelle il peso di ogni istante di questo tempo asfissiante.

Con la speranza che tutto questo sia presto un libro.

E, ancora più importante, un frammento della liberazione del corpo di ogni donna contro l’oppressione di una storia mai passata.

Il mercato delle donne di Mazar El Sharif durante Eid Fitr, Afghanistan (2024).

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𝑀𝑖 ℎ𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑠𝑝𝑖𝑛𝑡𝑜 𝑙’𝑎𝑟𝑖𝑎 𝑛𝑒𝑖 𝑝𝑜𝑙𝑚𝑜𝑛𝑖

𝑐𝑜𝑛 𝑚𝑎𝑛𝑖 𝑖𝑚𝑝𝑎𝑧𝑖𝑒𝑛𝑡𝑖,

𝑝𝑒𝑟𝑐ℎ𝑒́ 𝑟𝑒𝑠𝑝𝑖𝑟𝑎𝑠𝑠𝑖 𝑝𝑒𝑟 𝑙𝑜𝑟𝑜,

𝑝𝑒𝑟𝑐ℎ𝑒́ 𝑓𝑜𝑠𝑠𝑖 𝑖𝑙 𝑐𝑜𝑟𝑝𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑜𝑏𝑏𝑒𝑑𝑖𝑠𝑐𝑒,

𝑖𝑙 𝑟𝑒𝑠𝑝𝑖𝑟𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑛𝑜𝑛 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑒𝑠𝑡𝑎,

𝑙𝑎 𝑣𝑜𝑐𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑡𝑎𝑐𝑒.

𝐷𝑎𝑙 𝑝𝑟𝑖𝑚𝑜 𝑖𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑖𝑛 𝑐𝑢𝑖 𝑖 𝑚𝑖𝑒𝑖 𝑝𝑎𝑠𝑠𝑖

ℎ𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑠𝑓𝑖𝑜𝑟𝑎𝑡𝑜 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑎 𝑡𝑒𝑟𝑟𝑎,

𝑒𝑟𝑎 𝑔𝑖𝑎̀ 𝑠𝑐𝑟𝑖𝑡𝑡𝑜:

𝑑𝑜𝑣𝑒𝑣𝑜 𝑝𝑎𝑔𝑎𝑟𝑒 𝑖𝑙 𝑝𝑟𝑒𝑧𝑧𝑜 𝑑𝑖 𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑒 𝑛𝑎𝑡𝑎 𝑑𝑜𝑛𝑛𝑎,

𝑒𝑠𝑝𝑖𝑎𝑟𝑒 𝑙𝑎 𝑐𝑜𝑙𝑝𝑎

𝑑𝑖 𝑛𝑜𝑛 𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑒 𝑓𝑖𝑔𝑙𝑖𝑜,

𝑑𝑖 𝑛𝑜𝑛 𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑒 𝑢𝑜𝑚𝑜.

𝑀𝑖 ℎ𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑐𝑖𝑛𝑡𝑜 𝑑’𝑜𝑚𝑏𝑟𝑒 𝑙𝑒 𝑚𝑎𝑛𝑖,

𝑚𝑖 ℎ𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑎𝑣𝑣𝑜𝑙𝑡𝑜 𝑖 𝑝𝑖𝑒𝑑𝑖 𝑖𝑛 𝑐𝑎𝑡𝑒𝑛𝑒 𝑠𝑖𝑙𝑒𝑛𝑧𝑖𝑜𝑠𝑒,

ℎ𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑣𝑒𝑙𝑎𝑡𝑜 𝑖 𝑚𝑖𝑒𝑖 𝑜𝑐𝑐ℎ𝑖 𝑑𝑖 𝑚𝑒𝑛𝑧𝑜𝑔𝑛𝑒,

𝑟𝑖𝑒𝑚𝑝𝑖𝑡𝑜 𝑙𝑒 𝑚𝑖𝑒 𝑜𝑟𝑒𝑐𝑐ℎ𝑖𝑒 𝑑𝑖 𝑠𝑢𝑝𝑒𝑟𝑠𝑡𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖,

𝑐ℎ𝑖𝑢𝑠𝑜 𝑙𝑎 𝑚𝑖𝑎 𝑏𝑜𝑐𝑐𝑎

𝑐𝑜𝑛 𝑖𝑙 𝑠𝑖𝑔𝑖𝑙𝑙𝑜 𝑑𝑒𝑙 𝑠𝑖𝑙𝑒𝑛𝑧𝑖𝑜.

𝑃𝑜𝑖, 𝑐𝑜𝑛 𝑓𝑖𝑙𝑖 𝑖𝑛𝑣𝑖𝑠𝑖𝑏𝑖𝑙𝑖,

𝑚𝑖 ℎ𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑓𝑎𝑡𝑡𝑎 𝑑𝑎𝑛𝑧𝑎𝑟𝑒,

𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑢𝑛𝑎 𝑚𝑎𝑟𝑖𝑜𝑛𝑒𝑡𝑡𝑎 𝑛𝑒𝑙 𝑡𝑒𝑎𝑡𝑟𝑜 𝑑𝑒𝑙 𝑙𝑜𝑟𝑜 𝑚𝑜𝑛𝑑𝑜.

𝑀𝑎 𝑖𝑜 ℎ𝑜 𝑔𝑢𝑎𝑟𝑑𝑎𝑡𝑜 𝑑𝑒𝑛𝑡𝑟𝑜 𝑚𝑒 𝑠𝑡𝑒𝑠𝑠𝑎

𝑒 ℎ𝑜 𝑣𝑖𝑠𝑡𝑜 𝑖𝑙 𝑓𝑢𝑜𝑐𝑜.

𝐻𝑜 𝑠𝑒𝑛𝑡𝑖𝑡𝑜 𝑖 𝑚𝑖𝑒𝑖 𝑝𝑜𝑙𝑠𝑖 𝑏𝑟𝑢𝑐𝑖𝑎𝑟𝑒,

𝑙𝑒 𝑐𝑎𝑡𝑒𝑛𝑒 𝑓𝑎𝑟𝑠𝑖 𝑐𝑒𝑛𝑒𝑟𝑒,

𝑖𝑙 𝑣𝑒𝑙𝑜 𝑑𝑖𝑠𝑠𝑜𝑙𝑣𝑒𝑟𝑠𝑖,

𝑙𝑎 𝑚𝑖𝑎 𝑣𝑜𝑐𝑒 𝑎𝑙𝑧𝑎𝑟𝑠𝑖

𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑢𝑛 𝑢𝑟𝑎𝑔𝑎𝑛𝑜 𝑛𝑒𝑙 𝑣𝑒𝑛𝑡𝑜.

“𝑆𝑜𝑛𝑜 𝑙𝑖𝑏𝑒𝑟𝑎!” ℎ𝑜 𝑔𝑟𝑖𝑑𝑎𝑡𝑜,

𝑚𝑎 𝑖𝑙 𝑚𝑜𝑛𝑑𝑜 ℎ𝑎 𝑟𝑖𝑠𝑝𝑜𝑠𝑡𝑜:

“𝐸̀ 𝑢𝑛𝑎 𝑠𝑔𝑢𝑎𝑙𝑑𝑟𝑖𝑛𝑎,

𝑢𝑛𝑎 𝑝𝑒𝑐𝑐𝑎𝑡𝑟𝑖𝑐𝑒,

𝑢𝑛𝑎 𝑑𝑎𝑛𝑛𝑎𝑡𝑎!”

𝑃𝑒𝑟 𝑢𝑛 𝑎𝑡𝑡𝑖𝑚𝑜 ℎ𝑜 𝑐𝑟𝑒𝑑𝑢𝑡𝑜

𝑑𝑖 𝑎𝑣𝑒𝑟 𝑡𝑜𝑐𝑐𝑎𝑡𝑜 𝑙𝑎 𝑙𝑖𝑏𝑒𝑟𝑡𝑎̀,

𝑚𝑎 𝑚𝑖 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑣𝑖𝑠𝑡𝑎 𝑟𝑖𝑓𝑙𝑒𝑠𝑠𝑎

𝑛𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑓𝑎𝑢𝑐𝑖 𝑑𝑖 𝑙𝑢𝑝𝑖 𝑎𝑓𝑓𝑎𝑚𝑎𝑡𝑖,

𝑐𝑜𝑛 𝑑𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑎𝑓𝑓𝑖𝑙𝑎𝑡𝑖

𝑑𝑖 𝑎𝑛𝑡𝑖𝑐ℎ𝑒 𝑝𝑎𝑢𝑟𝑒 𝑒 𝑓𝑎𝑙𝑠𝑖𝑡𝑎̀.

𝑁𝑜𝑛 𝑠𝑜 𝑠𝑒 𝑛𝑒 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑢𝑠𝑐𝑖𝑡𝑎 𝑣𝑖𝑣𝑎

𝑜 𝑠𝑒 𝑚𝑖 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑑𝑖𝑠𝑠𝑜𝑙𝑡𝑎 𝑛𝑒𝑙 𝑏𝑢𝑖𝑜.

𝑀𝑎 𝑠𝑜 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑜—

𝐼𝑛 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑎 𝑡𝑒𝑟𝑟𝑎

𝑑𝑜𝑣𝑒 𝑔𝑙𝑖 𝑢𝑜𝑚𝑖𝑛𝑖 𝑓𝑟𝑢𝑠𝑡𝑎𝑛𝑜 𝑙𝑎 𝑙𝑢𝑛𝑎,

𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑒 𝑑𝑜𝑛𝑛𝑎

𝑒 𝑣𝑖𝑣𝑒𝑟𝑒 𝑙𝑖𝑏𝑒𝑟𝑎

𝑛𝑜𝑛 𝑒̀ 𝑢𝑛 𝑐𝑟𝑖𝑚𝑖𝑛𝑒.

𝑁𝑜.

𝐸̀ 𝑖𝑙 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑔𝑟𝑎𝑛𝑑𝑒 𝑑𝑒𝑖 𝑝𝑒𝑐𝑐𝑎𝑡𝑖.

Non perderti nemmeno una briciola di bellezza resistente.