LunaticaMente

Dimenticare di essere spazio e tempo, carne e nervi. Dimenticare i tessuti doloranti, le volte che ha fatto più male e quelle in cui è stato invece qualcosa di molto simile ad una liberazione. Liberarsi di sé stessi esige un prezzo. Persino distruggersi richiede cura e dedizione.

Una domanda rivoluzionaria: e se quella stessa cura, quella stessa dedizione fossero riversate invece nel disperato tentativo – l’ultimo – di amarsi? Senza rinnegarsi, senza abdicare a sé, senza mutilazioni. Amare sé stessi disperatamente come disperatamente si ama sempre chi si odia di più. Perché riusciamo a farlo con gli altri e mai con noi?

La luna è lì e gioca a incasinarmi il cervello in una serata di fine estate, niente di nuovo. Però me la ricordo quella sensazione, quel pensiero sfuggente e un po’ straniante: forse posso amarmi… posso davvero?

Ho chiesto il permesso persino in quel momento.

Brutta abitudine.

La luna è d’accordo.

Bruttissima.

Me la scrollo di dosso come cenere di sigaretta quando decide che è giunto il momento di lasciarsi andare.

Non credevo, però, che imparare ad amarsi fosse una strada così solitaria. Il mondo non te lo perdona. Faccio ancora una fatica immensa ad accettarla come possibilità, senza autoflagellazioni né sensi di colpa. Sono in cammino, in scoperta perenne, cerco un modo per rendere tangibile questo amore.

Mi amo. Lo giuro. Dico davvero.

La luna mi guarda ambigua, sa bene che sono sua figlia. La vedo sorridere di sbieco. Osservo il suo contorno madreperlaceo, appena sfumato nell’ombra della notte che incombe. Lei sa che sono sincera, ma sa anche che, come lei, esiste una faccia che non si lascia mai guardare nel movimento con cui mi offro al mondo. Un lato che resta distante, incantato, precluso fintanto a me che ne sono custode, mio malgrado.

Giro in sincronia, oscillo nella notte, osservo, mi osservo. Sento quel volto buio emergermi dalla nuca, lì dove non posso vederlo neanch’io. Mi sfioro il collo, mi sposto la maglia, la sigaretta che nel frattempo avevo acceso rischia di bruciarmi una ciocca di capelli. La spengo d’istinto nel posacenere, strizzandola tra le dita e picchiettando finché non muore nel cimitero di polvere e mozziconi in cui l’abbandono.

Respiro. Respiro male. Non per il fumo. Sento la fatica aggrapparsi alla gola, di nuovo, l’ansia innervarmi le dita. Vorrei infilare anch’io la testa in quel posacenere. D’improvviso ho di nuovo fame di distruzione e dolore e quel pensiero cullato poc’anzi, quell’idea di poter imparare ad amarmi, farlo per davvero, appare di nuovo come uno sforzo inutile.

Alzo lo sguardo. Lei è ancora lì, imperturbabile, bellissima e triste.

Non è che è colpa tua?, le dico. M’incasini sempre, stronza. 

Mi tornano in mente i versi di una canzone sentita tanto tempo prima.

«Did you seen the moon last night? It was pretty good, it messed with my head, as you know it always does, it messed with my head…».

Vaffanculo. Sono pazza. Sto per rientrare in casa, quando sento un soffio appena accennato che mi sfiora lì, dove poco prima avevo rischiato di bruciarmi. Una voce di velluto e pulviscolo viene a visitarmi. La sento sussurrare.

Non ti ho insegnato ancora niente? Muoio e rinasco, alzo oceani e li lascio cadere, sono qui, ma anche altrove.

Silenzio.

Puoi farlo. Davvero.

Posso?

Silenzio.

E l’altra me, l’altra parte di me? Quella dietro cui mi nascondo, quella me che non conosco ancora? Come faccio a sapere che sarò capace di amarla? Si può amare ciò che si odia. Ma ciò che ci spaventa? Ciò che sfugge e resta in ombra?

La luna sospira.

Si chiude nel silenzio, ancora.

La immagino implodere nel cielo, prima blu, poi bianca, poi rossa, poi niente.

Mi accendo un’altra sigaretta e osservo serpenti di fumo salire in alto.

La spengo.

Svuoto il posacenere, soffio sulla polvere.

Sì, forse posso.

 

Questa è una storia vera e ho appena cominciato a raccontarla.

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Non perderti nemmeno una briciola di bellezza resistente.