Niente

Sono giorni che arranco mentalmente in vista di questo appuntamento. Sono sincera, come sempre cerco di essere in questo nostro spazio virtuale: non ho davvero voglia di scrivere oggi. Non perché io non abbia nulla da dire, semplicemente perché quando sento quella crepa allargarsi di nuovo tra le tempie i pensieri cominciano a farsi confusi e tutto diventa immensamente complicato. Fare ordine tra il casino che si riaffaccia prepotentemente, spinto e accelerato dalle circostanze, da volti e immagini e parole riemerse da chissà dove, non è impresa da poco. Ma ci provo.

Sono giorni – settimane – che spingo il mio corpo e la mia psiche oltre i limiti che solitamente mi pongo. Un po’ per necessità, un po’ per masochismo, un po’ per stupidità, forse. Non sempre mi accorgo dello sfaldarsi delle reti di sicurezza accuratamente costruite nel tempo, non sempre riesco a cogliere i segnali, a guardarmi allo specchio, fermarmi un attimo e darmi il permesso di frenare. E’ una trappola meschina: non posso stare ferma, mi dico.  Se il vuoto prende il sopravvento, se parcheggio la mia testa da qualche parte mettendo in stand-by tutto, solitamente è più facile che la crepa dalla quale l’altra me emerge, come un demone in fuga dalla dimensione che gli appartiene, s’apra come un lampo improvviso. Allora faccio di tutto per non badarci nemmeno per un secondo, per scacciare via quel vapore scuro che comincia a farsi pesante sugli occhi. Lavoro, lavoro, parlo, esco, lavoro, mi distraggo, faccio la cretina, rido ad alta voce, lavoro ancora, bevo e fumo e per un po’ va pure bene.

Dov’è la trappola? Che questa paraculata qui non può durare in eterno. Se sono davvero brava un paio di mesi addirittura. Poi qualcosa si inceppa. Come in questi giorni. La stanchezza prende il sopravvento – stanchezza di tutto, degli sbatti, degli impegni, dei progetti, della gente, delle stronzate, delle conversazioni futili che mi spengono l’anima, delle distrazioni facili, dei sorrisi forzati, della merda che cerchi di sotterrare e non guardare ma è sempre lì. E la stanchezza, del corpo e del cervello, è la prima porta da cui il malessere riesce a intrufolarsi, perché mi obbliga a fermarmi. E quando mi fermo non succede mai niente di buono, ma nemmeno quando mi rigiro nell’euforia troppo a lungo. Quindi, che cazzo devo fare? Serve un equilibrio, occorre impararlo, educarsi ad esso. Lo so. E in parte ci sono, meglio di prima sicuro, ma è una perenne altalena e io mi trovo sempre, alla fine, a stringermi la testa tra le mani e gridare «Fatemi scendere cazzo, non è giusto!». Come una bambina al contrario. Una bambina piccola e nervosa catapultata su una giostra che le fa schifo, che si dimena, urla, e tutti pensano stia facendo i capricci perché vorrebbe un altro giro. Invece no, l’esatto opposto.

Sto così, ecco.

Oggi di più. Se negli ultimi giorni ho sentito la crepa scricchiolarmi sulla nuca, oggi semplicemente non sento più niente. E non è positivo. Perché significa che l’altra me è uscita e ha iniziato a mangiarmi il cuore e infilarsi tra le sinapsi. Non so mai come dirlo alle persone, non so cosa dire, per questo alla fine mi trovo a scrivere qui, nonostante tutto. Scrivo molto meglio di come parlo, senza dubbio.

La verità, quindi, è che oggi non sento niente. Non sento nemmeno il male, il dolore, la tristezza. Ho un buco nero al posto del cuore che ingoia ogni stimolo, sentimento, parvenza d’emozione e me lo risputa fuori come catrame, come colla nera che s’aggrappa a tutto e lo rovina irrimediabilmente. E con questa roba qui chi è nella mia vita (chi c’è per davvero davvero), deve farci suo malgrado i conti. Perché questa sono io. E ho smesso di vergognarmene, almeno. Cerco sempre di ricordare a chi mi è vicino, però, che sono anche questo, ma sono molto altro. Che il mio interruttore interiore è un po’ difettoso e spesso si inceppa, ma oltre al buio più profondo sono anche luce e tenerezza persino. Troppa, a volte. Che nel mio torace c’è posto per tutta la gamma delle emozioni umane, anche per quelle a cui non siamo ancora riusciti a dare un nome. Forse è proprio questo il problema. Ogni tanto vado in sovraccarico ed è black-out momentaneo. Mentre lo scrivo cerco di convincermi di questa verità, per scacciare il pensiero tossico che spesso mi risale in gola di essere solo un androide gelido che finge di provare qualcosa.

Ma no, non è così. Questi non sono i miei pensieri, sono quelli dell’altra me, è lei la stronza, quella di cui avere paura. O semplicemente da provare a capire.

Forse vengo da un’altra galassia e devo abituarmi a questo mondo qui. Probabilmente spenderò tutta la vita a provarci, in precario equilibrio.  E nonostante oggi io mi senta così, continuo a pensare che ne valga comunque la pena.

Rileggo e vorrei aver scritto parole più positive, ma non sarebbe da me. Le stronzate motivazionali non m’interessano. Qui c’è la verità, c’è la vita, c’è la merda, c’è il ruvido e il non detto. Quello che difficilmente le persone vogliono sentire, quello che il mondo non è ancora del tutto pronto ad accettare: che a volte si sta semplicemente male. Anche se poi usciamo lo stesso, facciamo programmi, scopiamo, andiamo al cinema, andiamo al pub, ci iscriviamo ad un master, scherziamo con gli amici.  A volte si sta male che t’aggiri per la strada senza provare un cazzo manco per sbaglio.

E va bene così.

 

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Immagine in evidenza: Shaza Wajjokh

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