Tempo perso

Ho sempre avuto un problema col tempo. Non parlo semplicemente del riuscire a gestirsi e distribuirsi al meglio durante la giornata, mi riferisco al concetto stesso di tempo, al mio corpo e alla mia mente immersi in una dimensione temporale che spesso è assolutamente soggettiva e procede per salti in avanti e indietro, o non procede affatto e allora tutto diventa un eterno presente intervallato qui e lì da buchi neri.

Cos’è il tempo? Esiste? Come lo quantifichiamo? Che differenza intercorre tra il tempo della vita e quello dello spazio interiore? E cos’è davvero la vita, la trafila di impegni, obblighi sociali, obbiettivi più o meno importanti che ci poniamo o quella che segretamente viviamo quando nessuno ci vede, dove nessuno può raggiungerci? Mi fermo prima di andare troppo oltre e bloccarmi in inutili spirali di congetture.

Ho un problema col tempo, dicevo. Sempre avuto. Sono radicata nel passato remoto o nel futuro anteriore. Non c’è quasi mai una via di mezzo, non esisto lì, in quel mezzo, lì dove dovrei. Tranne quelle poche, pochissime volte in cui arriva qualcosa o qualcuno di tanto potente ed elettrizzante da catturarmi e trascinarmi a forza nel presente vivo. Generalmente sono lontana, persa indietro o già troppo in avanti. Alcuni mi hanno detto che è per paura, altri per arroganza, altri che è un modo di essere in perenne fuga , altri ancora che sono irrisolta. Può essere, rispondo a tutti, ma già il mio sguardo si è fatto obliquo e la voglia di spiegare si è consumata in uno sbadiglio. [Questo sì, l’ammetto, è un atteggiamento da stronza arrogante, ok].

Il punto è che vivere una certa condizione mentale ti porta necessariamente ad instaurare un rapporto col tempo ambiguo e a sé. Come si può spiegare alla gente che nel mio universo funziona tutto al contrario, che si implode, si galleggia, si evapora e poi si cade come pesi morti senza però schiantarsi mai? Che tutto ciò che sale non è detto che scenda, che alcune cose spariscono e basta, si distruggono e non si trasformano in un cazzo di niente, che l’entropia è una legge piena di falle perché nel mio sistema ciò che procede può riavvolgersi, come un nastro, e tornare esattamente allo stato iniziale? Che il tempo è una girandola in cui perdersi come un gatto dalle mille vite o un serpente più antico del peccato originale? Che il tempo ha un sapore, una consistenza, e spesso è gelatina viscosa che m’impedisce di vederci chiaro, altre volte piramidi polverose che s’espandono in frattali dalle tempie?

Come posso spiegare tutto questo a parole, lucidamente, davanti ad una birra o seduti su una panchina, senza sembrare una pazza esaltata o una che dice un sacco di cazzate insensate?

Quando mi chiedono del mio tempo non so mai bene cosa dire e finisco per dire le solite banalità, che però sono umane, umanissime e mi rendono di certo più socialmente accettabile e comprensibile. Allora parlo anche io di impegni, esperienze più o meno significative, assumo il linguaggio delle ore e dei minuti, dei calendari e delle scadenze. Il mio tempo viene scandito dagli anni universitari – “eh mi sono laureata a luglio“, “ora cerco lavoro” – dalle cose che faccio, dalle relazioni che ho avuto, dai programmi del weekend, dalle 4-5 sveglie la mattina, dagli autobus e dai miei ritardi cronici. Cerco di pensarmi nel tempo, in linea retta, progressivamente, mettendo puntelli qui e lì, guardandomi alle spalle e cercando di definire com’ero, come sono, come sarò. Non ci riesco mai davvero, né riesco a spiegarlo a chi vorrebbe creare nella sua testa un disegno di me più definito, più leggibile.

“Stai perdendo tempo”, mi ha detto qualche giorno fa una persona. Mi sono incazzata così tanto che per un paio di giorni ho innescato la modalità silenzio tombale. Mi sono poi domandata come mai avessi reagito così bruscamente. La verità è che, se è vero che ho un problema col tempo, ce l’ho al massimo grado col tempo della produzione, che poi è la dimensione principale in cui è immersa quest’epoca infame. Se non sono produttiva sto perdendo tempo. Se non mi faccio vedere costantemente attiva, dinamica, socialmente sistemata e incanalata, sì, per il mondo sto perdendo tempo.

Vivere così, mostrandosi sempre all’altezza, sempre sul pezzo, orientata e lucida: ci ho provato, davvero, ed è finita a merda. Ho passato 6 o 7 anni, forse di più, ad ostentare certezze e sicurezze che non m’appartenevano, a macinarmi il fegato per corrispondere alle aspettative altrui, ad andare avanti ostinata e in posa da equilibrista, senza fermarmi mai, per evitare di dover assaporare un fallimento e guardare in faccia la verità. La verità era: non ci riesco, fermatemi, fermatevi. Lì il tempo s’è bloccato proprio e difatti ripenso a quegli anni come un gigantesco unicum di cui ho perso letteralmente le coordinate ed ogni riferimento concreto. Come fosse stata un’unica, lunghissima giornata buia che sembrava non finire mai. Accettare la propria inadeguatezza nel tempo non è facile, è un gorgo in cui precipiti a poco a poco e nel quale rischi di bloccarti. Il senso di colpa, laggiù, è il primo mostro che incontri. Poi la vergogna. Poi la rabbia.

Se imparassimo a percepire il tempo diversamente, se fosse valorizzato anche il tempo della distruzione e della rinascita, se il mondo riuscisse ad accettare apertamente le leggi dell’universo in cui mi muovo, allora sarebbe tutto diverso e forse avrei impiegato persino meno fatica ad uscire da quel gorgo. Ci sarebbe in quel caso un tempo anche per i desideri, per farsi a pezzi e ricucirsi, per scendere negli abissi e tornare a galla più saggi, perché questo dovrebbe contare qualcosa. Anche se sembriamo sempre più incapaci di parlarne, mentre siamo bravissimi a parlare di tutte le cazzate con cui ci riempiamo le giornate per non pensare che, forse, il coraggio di guardare in quell’abisso ci è sempre mancato.

Se ci fosse un tempo anche per perdersi – e basta – allora, forse, non sarebbe più tempo perso. No?

 

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Immagine in evidenza: art by Shaza Whajjok

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