Un flusso di pensieri

– di Eleonora Trapletti

 

In questi giorni di quarantena i miei pensieri scorrono molto veloci, spesso ho bisogno di fermarmi, scrivere e cercare di dare un senso a tutto questo che sto vivendo.

La mia città Bergamo è la zona più colpita di tutta Italia, ogni giorno si sentono le ambulanze e le campane suonano di continuo per indicare un’altra morte. Il cuore si spezza ogni volta di più. Accendo la televisione e non sento altro che notizie negative riguardo a questo maledetto virus.

Ho ancora nella mente l’immagine molto forte dei carri armati che portano via le salme perché i forni crematori di Bergamo non hanno più spazio a disposizione.

Un pensiero va alle famiglie che hanno perso i propri cari e che purtroppo viste le circostanze non hanno potuto dare un ultimo saluto.
Penso che oltre alla tristezza di perdere una persona, il fatto di non poter starle vicino è ingiusto e crea un’impotenza molto forte.

Il virus è arrivato così all’improvviso, all’inizio si pensava che fosse una forma influenzale più forte rispetto al solito e che morissero solo anziani o persone con antecedenti di malattia, invece la realtà dei fatti è ben diversa.
Qui la gente muore, il tuo vicino di casa improvvisamente non riesce a respirare e la tristezza incide fortemente sull’umore di tutti i giorni.
Vedere le strade vuote fa ancora più riflettere sul periodo che stiamo vivendo.
Non riesco a darmi pace rispetto al periodo cosi difficile, buio e incerto che stiamo vivendo, che sta vivendo tutto il mondo.

In questo momento il mio pensiero va anche alla mia “Querida Bolivia” dove il virus è arrivato e dove le possibilità di curare le persone sono molto scarse.
Penso ai miei amici boliviani, ai miei colleghi, ai ragazzi che seguivo nel centro Qalauma e a quelli che ormai sono fuori dal centro e che mi scrivono un messaggio per sapere come sto e per sfogarsi riguardo le loro preoccupazioni.
Si, sono preoccupata per loro, per tutti e la cosa più difficile è che nessuno può dare una spiegazione, una parola di conforto, siamo in balia degli eventi e la unica cosa che possiamo fare è quella di rimanere in casa e di seguire tutte le regole.

Molti stanno vivendo momenti difficili per mancanza di soldi, per difficoltà relazionali, per eccessività emotiva…ognuno ha i suoi alti e bassi, ognuno con i propri problemi.
Fortuna che esistono i cellulari e le videochiamate permettono almeno un po’ di stare vicini nonostante la lontananza.

In questi giorni una riflessione mi ricorre alla mente, riguardo a quelle donne, ma anche uomini e bambini che vivono in condizioni di violenza quotidiana e che sicuramente vivono un periodo di estrema difficoltà.
Rimanere a casa non è una consolazione, deve essere un incubo condividere un tetto con il tuo aguzzino/a.
La paura sarà tanta, ma allo stesso tempo proprio la stessa non permette di fare passi avanti. E cosi restano lì in una condizione di malessere .
(Il numero 1522 è un servizio pubblico promosso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento delle Pari Opportunità. Un servizio attivo 24 h per le vittime di violenza e stalking)

Sicuramente in questo periodo i problemi che si hanno si amplificano, il non poter distrarsi incide molto sull’umore e sull’equilibrio mentale.
Mi piacerebbe offrire dei consigli o delle risposte a chi spesso mi scrive che cosa potrebbero fare, ma in realtà non ho una soluzione e ci sono gli esperti come psicologi e psicoterapeuti che possono dare una gran mano e possono sicuramente offrire un supporto più esaustivo e prezioso.
Io l’unica cosa che posso fare è quella di ascoltare. L’ascolto è una componente importante in una relazione, per questo continuerò a farlo nonostante tutto.

Come ho già scritto in un articolo sempre su Aware – Bellezza resistente, faccio parte di una band musicale composta da operatori e senza dimora.
Ho letto molti articoli sul fatto che “rimanere a casa” per chi una casa non ce l’ha, risulta complicato.
Prima di condividere la mia opinione, è giusto soffermarsi sul concetto di “senza dimora”: una persona senza dimora è una persona che non ha un’abitazione e, in molti casi, non ha una residenza.
Secondo la classificazione ETHOS di FEANTSA (Federazione europea delle organizzazioni che lavorano con persone senza dimora), esistono quattro categorie per individuare la grave esclusione abitativa:

– le persone senza tetto;

– le persone prive di una casa;

– le persone che vivono in condizioni di insicurezza abitativa;

– le persone che vivono in condizioni abitative inadeguate.

Tutte queste categorie stanno comunque ad indicare l’assenza di una (vera) casa. Dalle persone che vivono in strada o in ricoveri di fortuna a quelle accolte in centri di accoglienza e dormitori, passando da chi è ospite in strutture per rifugiati e richiedenti asilo, fino a tutti coloro che utilizzano mense sociali, servizi a bassa soglia e di orientamento per rispondere alle proprie necessità in assenza di una dimora.

Oltre a non avere una casa nella quale isolarsi, le persone senza dimora sono comunque costrette ad utilizzare le mense per nutrirsi e i centri di accoglienza per dormire, entrambi luoghi in genere affollati e promiscui, nei quali la distanza minima non può essere, in molti casi, rispettata.

Chi non ha un’abitazione, inoltre, pur avendo compreso la gravità della situazione e sforzandosi con buona volontà di rispettare le regole, ha molta difficoltà ad adeguarsi alle norme igieniche di base previste dal DPCM, per non parlare della complessità nel reperire i dispositivi di protezione, perché non ne ha le possibilità economiche.

Per chi vive in condizioni precarie e di vulnerabilità questo periodo più di altri risulta ancora più difficile e i problemi per loro si sommano. Sono in costante contatto con alcune persone che dormono in strada e mi raccontano che vivere in dormitorio non è così facile perché è un possibile luogo di contagio. E in strada non possono stare perché possono avere delle multe.

E poi ci sono io….
molte volte ho immaginato il mio ritorno, dopo l’anno di servizio civile in Bolivia, ricco di incontri, sorrisi, momenti di spensieratezza, invece mi ritrovo da più di quindici giorni, rinchiusa nella mia casa.
Credo di non aver vissuto così appieno i miei spazi come in queste lunghe e interminabili settimane.
Ho deciso di non abbattermi, di scandire le mie giornate con attività lasciate indietro da ormai un po’ di tempo…sto cercando di cogliere il lato positivo del restare a casa.

Allora mi metto a pensare che nonostante tutta la difficoltà del momento, vedere la mia famiglia unita sotto lo stesso tetto, il poter chiamare gli amici che spesso non riesco a sentire, recuperare molti rapporti lasciati alle spalle e percepire una forte solidarietà delle persone nel paese, mi rende un po’ più positiva e mi fa sperare in momenti migliori.

Cerco di essere carica e recuperare la maggior parte di energia positiva per portare avanti i progetti che ho nella mente: bisogna continuare nonostante il periodo incerto che stiamo vivendo.

Il lato positivo è che sto anche imparando a bastarmi, a non andare in ansia e a continuare quello che avevo programmato, perché in fondo ci credo e ne sono ancora più convinta.
Forse dopo questo periodo avremo la possibilità di vivere in modo più genuino, tranquillo e instaurare relazioni più sincere con le persone. Forse.

In queste lunghe settimane, Bergamo sta lavorando sodo, la solidarietà che la mia città ha ricevuto mi ha fatto commuovere e vedere il lavoro immenso e faticoso che i medici e infermieri stanno svolgendo li rende ancora più grandi ai miei occhi per la professione ammirevole che hanno scelto.

Sono orgogliosa di essere italiana,
di essere bergamasca.

Nulla di più.

Forse vorrei aggiungere solo un
“andrà tutto bene”.

Non perderti nemmeno una briciola di bellezza resistente.