Un giorno a Kandahar

Momenti di vita tra i piccoli villaggi di fango del deserto di Kandahar, in Afghanistan, che sanno dare la misura di una terra dove, nonostante tutto, vive un’umanità accesa e antica come le montagne intorno.

Oggi un signore sulla sessantina, turbante a coste geometriche e barba bianca, al termine di una riunione con i capi villaggio di una delle zone più fragili del paese, ha indicato la tazza bollente di tè verde che aveva stretta nell’altra mano e sorridendo tra le capriole di fumo ha confessato con un tono leggero che a lui e alla sua gente basta ricevere in dono quello, un sorso di tè, per essere felici, soddisfatti; e che se poi noi persone venute da lontano vorremo condividere qualcosa in più saremo benvenute e Allah saprà ripagare ogni attimo di lavoro, ma non è necessario, “sai, a noi basta questo sorso di tè bollente”.

Ci siamo salutati con il palmo aperto sul cuore dell’altro, poi l’ho visto girarsi, montare su un cavallo color panna bardato di ghingheri e fiocchi da festa, e perdersi al trotto tra le linee lunghe del deserto.

Riunione con gli anziani del villaggio di Bakorzai, sud dell’Afghanistan.

Tornando verso casa una bambina che avrà avuto otto anni ci ha dato le indicazioni per ritrovare il cammino tra le curve di sabbia arida mentre con braccia ferme da adulto radunava da sola un gregge di una sessantina di pecore.

La testa coperta dallo scialle ricamato nascosta tra i ciuffi di lana dorata e solo le dita sottili a sbucare fuori tra i batuffoli, disegnando nell’aria cenni esperti e dritti come una direttrice d’orchestra.

Otto anni, forse nove, e un alone di vispa umanità cucito sui palmi delle mani.  

Bambina pashto nel villaggio di Bawri, provincia di Zabul, sud dell’Afghanistan.

Poco più avanti, presi di sorpresa da un acquazzone fuori stagione, abbiamo incontrato una donna di mezza età con un fagotto minuscolo tra le braccia mentre, senza grandi cerimonie, si rimboccava gli orli ricamati del burqa color cielo preparandosi ad attraversare un fiume in piena, lì dove fino a pochi minuti prima c’era il fango secco della strada sterrata.

Un improvviso mugolio contenuto ci ha fatto capire che nei risvolti del fagotto di cotone c’era un neonato in fasce. Abbiamo raggiunto la donna un istante prima che mettesse i piedi nelle ripide gonfie dell’acqua, facendole spazio nel retro della jeep.

Ci ha ringraziato con un leggero cenno della testa, lasciando intuire che comunque ce l’avrebbe fatta senza problemi anche a piedi.

Il fiume in piena di Qalat, provincia di Zabul.

In giornate così, trascorse tra case di fango e sorrisi larghi incorniciati in turbanti colorati, pupille molli da neonato e mani incrostate di lavoro, si scopre l’anima di una comunità dura e accogliente come il suolo che la vive, dove le persone conoscono il peso del silenzio e per questo non perdono un secondo per spezzarlo in uno scroscio di risa.

Una terra fiera e timida, colorata e pallida, forte e incerta.

Una terra che porta dentro la misura delle cose e le persone che la abitano ne insegnano l’essenza senza saperlo.

Una terra fatta di anime che sono passate attraverso una notte densa e per questo hanno cucite addosso le sfumature vivide dell’alba.

Non so bene cosa mi porterò dietro di questo deserto di pioggia quando sarà passato, di questo groviglio di storie fitte. Quello che so è che qualsiasi cosa sarà, sarà profondo e leggero come ogni angolo di umanità che lo vive.

L’insegnamento di chi ha vissuto tanto e ora si porta dietro il poco che serve.

Non perderti nemmeno una briciola di bellezza resistente.