Fuga dall’Ucraina: impressioni dalla stazione – Parte 6

A distanza di mesi, la guerra in Ucraina continua nella pressoché accettazione generale. Sara, attivista per l'organizzazione tedesca ASB, ci racconta le storie delle persone incontrate e accolte alla stazione di Amburgo durante i turni di volontariato. Donne, anziani, bambini e figli in fuga dalla tragedia della violenza e in cerca di una normalità che ogni giorno di più ha il profumo amaro dell'utopia.

Quelle qui riportate sono brevi storie di persone incrociate alla stazione centrale di Amburgo, dove l’autrice fa da volontaria in un’associazione chiamata ASB per supportare e coordinare l’arrivo e il viaggio di chi cerca rifugio dalla guerra in Ucraina. Ogni giorno, dei volontari si danno il cambio in turni di 3-4 ore in cui viene prestato un servizio di accoglienza (dando cibo, acqua e altri servizi essenziali come i gettoni per i bagni) e di assistenza che include l’aiuto con il trasporto verso luoghi sicuri. Per fare ciò, chi sa parlare russo o ucraino si mette ad ascoltare quello che viene richiesto dalle persone in arrivo, cercando di coordinare il restante viaggio insieme a Deutsche Bahn, la compagnia di treni tedesca di proprietà statale (un po’ come l’italiana Trenitalia) che si offre da tramite per il trasporto delle persone attraverso la Germania. Per questo, all’associazione è stata assegnata una piccola stanza proprio accanto al “Reisezentrum”, ossia la biglietteria della stazione, con qualche sedia e attrezzata con acqua calda, prese della corrente e panini fatti al volo dai vari volontari. Gli “interpreti”, gruppo di cui l’autrice fa parte, sono perlopiù persone di origine russa che sono da molti anni in Germania o all’estero.

Fin dai primi momenti della guerra, il flusso migratorio di persone dall’Ucraina verso altri Paesi Europei è stato incredibilmente massiccio. Per fare fronte alle ovvie difficoltà che si presentano durante un viaggio del genere, moltissime persone si sono rese disponibili ad aiutare in ogni modo possibile. Ad Amburgo, l’associazione di volontariato a cui chi scrive ha iniziato a fare parte, proprio per prestare soccorso a chi è in arrivo, ha organizzato il coordinamento non solo in stazione, ma anche di raccolta di soldi, vestiti, cibo, mobili, e chi più ne ha più ne metta, per far fronte alle esigenze delle persone.

Qui sotto, una cartina dell’Europa centro-orientale per orientarsi con alcuni dei posti indicati nei vari racconti, e per tenere a mente la distanza percorsa in treno dalle persone in fuga dalla propria città.

Due donne sulla quarantina mi chiedono dove possono trovare una sedia a rotelle per un loro parente che ne ha bisogno. A Rissen1, dove abbiamo il centro per gli aiuti concreti (vestiti, oggetti vari di uso quotidiano) sono già state tre volte ma non hanno trovato nulla. Il team leader mi suggerisce di provare all’organizzazione Bahnhofsmission2 lì accanto. Mentre aspettiamo la risposta dal ragazzo che ci sta aiutando, facciamo quattro chiacchiere. Sono di Dnipro, sono arrivate a inizio aprile quando i bombardamenti in città sono ricominciati. Mi raccontano che non è facile, hanno rispettivamente cinque e sei figli. Una di loro, quella con sei figli, è scappata in macchina attraverso l’Ucraina, la Polonia, e solo in Germania, verso Berlino, la polizia li ha fermati perché erano troppi in macchina, mi dice ridendo.

Una famiglia composta da padre, madre e figlia adolescente è seduta fuori dal Reisezentrum da un po’. Quando mi avvicino, vedo che hanno un’aria veramente abbattuta: mi spiegano che la loro famiglia era in Polonia da poco per via del lavoro del padre, e quando è scoppiata la guerra si trovavano lì. Quando hanno deciso di venire in Germania sono andati prima al centro di accoglienza di Berlino, che però li ha spediti qua ad Amburgo. I problemi sono quindi iniziati qui perché, avendo il visto polacco, le autorità di Amburgo si sono rifiutate di prenderli al centro di accoglienza. La situazione non facile era complicata dal fatto che la donna fosse incinta. Cerco di rassicurarli sul fatto che li aiuteremo il più possibile, ma ovviamente non so bene cosa sto promettendo. Per il momento, posso solo suggerire loro di andare a mangiare qualcosa con i nostri voucher, in modo da calmarsi un po’ e darci il tempo di parlare con il capo dell’associazione ASB della cosa, e vedere cosa si può fare. Sono a fine turno, me ne devo andare, ma non prima di essermi accertata che il nuovo team leader sia a conoscenza della situazione e prenda le giuste misure durante il prossimo turno…

Una coppia sui trentacinque anni parla con una volontaria che mi chiede se posso fare una chiamata all’ospedale dove questa famiglia ha la figlia ricoverata. A quanto pare, hanno ricevuto una chiamata dal numero dell’ospedale, ma non sono riusciti a rispondere in tempo e ora, quando richiamano, parlano in tedesco e non capiscono. In più, i loro cellulari sono quasi scarichi. È ormai tardi, sono circa le otto di sera, e al numero che mi fanno chiamare risponde una voce pre-registrata che dice che gli orari dell’ospedale sono taluni e talaltri. Proviamo un altro numero, stavolta qualcuno mi risponde, ma sembra un numero privato: la voce dall’altro capo mi conferma che sì, quello è il numero dell’ospedale, che la bambina è lì ricoverata, ma che non sa nulla del perché abbiano chiamato i genitori. Mi dà un numero interno da chiamare. Così faccio e finalmente mi rispondono che sì, la bambina è lì e sta bene, e che avevano chiamato i genitori solo per questioni burocratiche, ma nulla di urgente. Il sollievo si disegna sulle loro facce stanche e preoccupate.

Mi si presentano tre ragazzi sui vent’anni, mi dicono “Buongiorno” e poi in silenzio tirano fuori i loro documenti e sempre in silenzio me li mostrano. Li guardo un po’ stupita e gli chiedo qualche informazione in più: chi sono, dove vogliono andare, cosa serve loro. Mi rispondono con un inglese stentato che sono studenti stranieri che studiavano in Ucraina e che vogliono sapere come continuare qui l’università. Li mando a Rahlstedt al centro di accoglienza, chiedendomi in quale lingua stessero frequentando l’universita’ in Ucraina se, alla mia richiesta “meglio parlarvi in russo o in inglese?” mi hanno risposto “inglese” e poi non capivano le mie semplici risposte.

Arriva una coppia giovane, tra i venticinque e i trent’anni, con un gatto appresso. Devono andare nel Regno Unito e quindi devono aspettare in Germania principalmente due cose: il loro visto e che il gatto passi le tre settimane di quarantena dopo aver fatto i vaccini necessari. Dove possono andare? Nici, la team leader, trova un match tra i nostri volontari: una donna sui quarant’anni che in mezz’ora viene a prenderli per portarli a casa, ma mi spiega che tra il 18 e il 20 maggio ospiterà un’altra famiglia e che quindi dovranno cercare un altro posto. Loro sono carinissimi e si adeguano a tutto, sono molto sollevati dall’aver trovato una soluzione. Manca solo il test del Coronavirus, perché nel caos generale ci siamo dimenticati che, prima di spedire gente a casa di qualcuno, devono essere negativi. Inizio a spiegare la procedura del self test e mi accorgo che non ho la minima idea di come si traducono certe cose come “infilare nel naso”, “estrarre dal liquido” o “tre gocce nella provetta”. In un modo o nell’altro comunque li assisto e, con grandissimo mio sollievo (immagino condiviso da loro) ottengono test negativi e possono andare a casa con la volontaria. 

Una donna e una ragazzina mi chiedono dove possono dormire fino a lunedì. Arrivano da Göttingen, dove vivono da un mesetto, e lunedì mattina hanno l’appuntamento al consolato ad Amburgo. Perciò la signora ha pensato che sarebbe stato meglio arrivare qualche giorno prima in modo da essere sicura di dove andare per non perdersi. Non aveva però fatto i conti con il fatto che trovare dove dormire ad Amburgo non è né economico né semplice, e quindi è venuta a chiedere aiuto. Cosa fare? La team leader ancora trova la soluzione: possono andare in Holstenstraße, dove c’è un’altra organizzazione che prende con sé famiglie con bambini. Sono aperti solo tra giovedì e domenica, e si può solo pernottare, durante il giorno devono per forza uscire e tornare la sera. Accorpiamo questa famiglia con un’altra composta da mamma con due figli, più una coppia giovane con la ragazza (parecchio) incinta. Andiamo insieme con la S-Bahn e nel frattempo faccio le domande solite di conoscenza: chi siete, da dove venite, da quanto siete qui. La madre con la figlia che deve andare al consolato è di Odessa, sono scappate a inizio marzo e mentre cercavano dove stare (pensavano a Monaco inizialmente), un ragazzo incontrato sul treno che vive a Monaco ma lavora a Göttingen ha consigliato loro di evitare Monaco e piuttosto di cercare di stare in qualche città più piccola. Così si sono fermate a Göttingen, dove hanno dato loro un posto dove stare al centro di accoglienza, e pare che si trovino tutto sommato bene. L’altra famiglia veniva da Berlino, dove si erano fermati per un po’ e avevano conosciuto la coppia con la donna incinta (coppia estremamente silenziosa ma accomodante). Erano scappati qualche giorno fa da una cittadina nei dintorni di Kiev, e ora stanno cercando di capire cosa fare. Li saluto sui binari della S-Bahn di Holstenstraße lasciandoli con un altro volontario, e mi salutano come molti altri già fanno dicendomi “danke, danke!”.

Un ragazzo mi si avvicina e mi dice che ha bisogno di un posto dove dormire da domani notte in poi per qualche tempo, mentre aspetta il visto per gli Stati Uniti. Stanotte ha un posto a casa di un amico, ma da domani non sa che fare. Forse sua mamma lo raggiungerà più tardi, ma non ne è sicuro. Inizio a pensare a varie opzioni, e mentre chiedo consiglio a Nici, la team leader, il ragazzo mi dice di essere minorenne, ha diciassette anni. Lo dico a Nici, che si gela e mi chiede se davvero ha capito bene che il ragazzo è minorenne e non accompagnato, perché se così fosse dovrebbe chiamare i servizi sociali che si occupano di questi casi. È obbligatorio chiamarli, non può rifiutarsi, e mi dice di non spiegare subito al ragazzo questa cosa, nel caso pensi che è un qualcosa di brutto e decida di andarsene. Sto male, odio mentire. Continuo la chiacchiera col ragazzo, gli dico che la team leader sta cercando una soluzione. Mentre parliamo, mi dice che una sua conoscente gli ha detto che in Germania c’è un posto per i minorenni dove danno loro un posto dove stare, da mangiare, e tutto quanto. Io gli chiedo se è lì che vuole andare e lui mi conferma che sì, vorrebbe. A questo punto Nici arriva con la notizia che le persone dei servizi sociali stanno arrivando, e di comunicarlo al ragazzo. Gli spiego tutto questo, dicendogli che dovrà stare lì a partire già da stasera e che, una volta ottenuto il visto, potrà andarsene. I due amici che lo hanno accompagnato decidono di fermarsi con lui fino all’arrivo di queste persone. Sono contenta che tutto si sia risolto nel modo migliore. 

Siamo andati a trovare I. M., N. R. e la nipote M. a Lubecca. Avevo proposto loro di fare una passeggiata dopo Pasqua, così ci siamo messi d’accordo per domenica 8 maggio. M. e il nonno ci aspettavano al ponte per entrare nella città vecchia, I. M. invece era in casa a finire di preparare. Ci hanno mostrato il loro appartamento, una stanza singola quasi il doppio del nostro salotto, una cucina separata, bagno e anticamera. A parte la mancanza di un separé e di un frigorifero di dimensioni adeguate per tre adulti, sono estremamente fortunati. L’appartamento è sul fiume, in zona centralissima, difficile pensare di trovare di meglio. Ci raccontano comunque gli sbatti per arrivare lì, e le difficoltà di ogni giorno. La madre di M. non vuole andarsene da Kharkiv, sta là con il padre e il fratello di M. Lei sta continuando a seguire le sue lezioni online e sta anche imparando il tedesco. I suoi nonni si impegnano altrettanto, ma ovviamente l’età non li avvantaggia. Li trovo bene, trascorriamo un pomeriggio piacevole mentre ci riempiono di cibo, di vino e di the, come nella migliore tradizione. Mi sento di casa. Ci accompagnano verso le 18:30 a prendere il treno per tornare ad Amburgo. Sono parecchio stanca, ma felice.

Andrey ed io in uno dei turni alla stazione.

1 Un quartiere di Amburgo.

2 Un’associazione di volontariato situata nei pressi delle maggiori stazioni della Germania, dove vengono forniti aiuti gratuiti a chiunque ne abbia bisogno, da chi è in viaggio e si scarica il cellulare, a chi è senzatetto o in altre emergenze esistenziali.

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* Sara condivide sul magazine di AWARE una nuova pagina del suo diario di attivismo ogni settimana. Per leggere gli articoli delle scorse settimane clicca qui.

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