Positività tossica: il bisogno indotto che svaluta le emozioni

La positività tossica è un atteggiamento dannoso e illusorio che svaluta l'individuo e il suo spettro di emozioni.

Quello sulla positività tossica è un discorso ampio, che tocca diverse tematiche: dall’economia, alla psicologia; riguarda molto da vicino il nostro ruolo di consumatori e la nostra salute mentale. Ed è proprio per questi motivi che è importante parlarne e scardinarne i principi.

Positività tossica e depressione

Negli ultimi anni c’è stato un incremento di atteggiamenti e contenuti considerati positivi. I social, in questo senso, non solo giocano un ruolo fondamentale per la diffusione della positività tossica, ma sono il campo in cui essa può essere maggiormente evidente. Foto di persone sorridenti con didascalie incoraggianti e slogan triti al grido di good vibes only; istantanee di vita quotidiana in cui non ci si lascia mai andare, in cui tutto splende anche nelle giornate peggiori; perché, si sa, il broncio e la negatività non aiutano ad affrontare le situazioni in cui è richiesta “resilienza”.

Resilienza, un’altra parola abusata da questo universo ultra-positivo, svuotata del suo potente significato e messa al servizio delle nostre battaglie contro il cattivo umore. Ma è davvero così? Davvero i sentimenti negativi devono essere soffocati in nome di un atteggiamento positivo a tutti i costi? O, piuttosto, questo sfoggio di positività non è altro che il risultato, economicamente fruttuoso, di una società che non può – o non vuole – permettersi un dialogo sulle emozioni?

Nonostante questa ostentazione, l’efficacia del pensiero positivo è messa in dubbio da molti studi. Secondo i dati OMS, già nel 2017 l’incidenza della depressione era aumentata del 20% e si prevedeva un ulteriore aumento: in particolare entro il 2020, essa sarebbe stata la seconda causa di invalidità. Le circostanze, purtroppo, hanno dato ragione all’OMS e la pandemia non ha fatto che peggiorare la situazione. L’anno appena trascorso, infatti, ha messo in evidenza tutte le mancanze della nostra società verso la tutela della salute mentale, messa troppo spesso in secondo piano.

Lo stigma sulla salute mentale

Il discorso sulle malattie mentali è, da sempre, circondato da un pesante stigma che ne impedisce una discussione seria e utile. La malattia mentale è vista spesso come una colpa perché è opinione diffusa che chi soffre di un disagio psicologico possa guarire con le sue stesse forze: “basta volerlo”. Un modo di pensare non solo infruttuoso ma anche pericoloso, perché potrebbe impedire a quantx soffrono di un disturbo di avvalersi dell’aiuto di persone specializzate o, semplicemente, di parlarne con chi hanno vicino. La paura di non essere capitx o che il proprio malessere venga minimizzato o, addirittura, la colpevolizzazione, sono dietro l’angolo.

Sì, perché se “non sei felice” è solamente responsabilità tua. Se sei “matto” (altra etichetta che mina alla fiducia e alla sicurezza della persona) è perché non ti sei impegnatx abbastanza. Questo non fa altro che acuire il disagio interiore e il senso di colpa per non essere in grado di risolvere da solx i propri problemi e le proprie sofferenze. Quante volte si sente dire che “lo psicologo non serve a niente” perché, per l’appunto, la chiave per guarire è dentro di noi e sta solamente alla nostra volontà. Eppure non ci sogneremmo mai di dire a una persona con un malessere fisico che può guarire da sé e che le basterebbe impegnarcisi. Così come non ci sogneremmo mai di suggerire a qualcuno affetto, ad esempio, da disturbo della personalità o schizofrenia di potersi curare autonomamente.

Una cultura delle emozioni carente

Dov’è, dunque, la differenza? Perché una malattia invalidante come la depressione, riconosciuta come tra le più caratterizzanti della nostra società e della nostra epoca, deve essere surclassata a mera tristezza e piagnisteo? Le cause potrebbero essere molteplici. Forse tra queste risiede il fatto che la malattia mentale, il disagio emotivo, non sono immediatamente visibili come lo è un malattia fisica. Ma più di ogni altra cosa, la causa di questo stigma, di questa tendenza alla banalizzazione, è dovuta alla mancanza di una cultura sulla salute mentale e sullo spettro di emozioni che ci caratterizza come esseri umani. Il risultato di questa mentalità diffusa è quello di aumentare il senso di isolamento in chi soffre intimamente e vorrebbe chiedere aiuto e avere la comprensione delle persone vicine.

Il mantra della produttività

Cosa ha a che fare tutto questo con la positività tossica? Il discorso, in realtà, è strettamente collegato non solo per il mantra del “pensare positivo” che capeggia questo atteggiamento ormai diffuso; la positività tossica è anche correlata alla produttività dell’individuo, alla sua utilità, caratteristiche che conducono ad aumentare l’individualismo e l’isolamento, il senso di solitudine che pervade moltx di noi. Nell’ottica di una società portata al consumo, è fondamentale che l’individuo sia produttivo, performante; per esserlo, esso deve necessariamente stare bene: essere felice.

L’approccio motivazionale, tipico della positività tossica, preme molto sull’importanza della produttività come spinta alla felicità, al benessere. Peccato si tratti di un benessere fittizio, che non tiene in conto il reale benessere interiore del singolo. Secondo il filosofo coreano Byung-Chul Han «l’iperattività è, paradossalmente, una forma estremamente passiva del fare, che non ammette più alcun agire libero. Si fonda su un’assolutizzazione unilaterale della potenza positiva». Se, infatti, l’agire, il fare, possono avere un impatto positivo sulla psiche dell’individuo, un eccesso di produttività, di iperattività, di prestazione, può condurre a malesseri come la sindrome da burnout o altri disagi.

Discorsi che mettono in relazione produttività, malessere e stati d’animo sono trattati da diversi studiosi contemporanei: il già citato filosofo coreano Byung-Chul Han ne La società della stanchezza, i sociologi Anna Simone e Federico Chicchi ne La società della prestazione o gli autori di Happycracy, Eva Illouz e Edgar Cabanas.

Happycracy e Mondo nuovo: esempi di positività tossica

Quest’ultima opera in particolare tratta proprio della dittatura del pensiero positivo. Il titolo stesso non lascia scampo a equivoci: Happycracy, come la scienza della felicità controlla le nostre vite. Il termine stesso Happycracy è una crasi che indica una certa politicizzazione del discorso sulla felicità: capiamo, dunque, come la positività tossica abbia un valore non solo sociale, ma politico ed economico. Basti pensare anche al famoso romanzo di Aldous Huxley, Il mondo nuovo. Huxley nella sua società distopica, tra le altre cose, descrive uno stato di perenne felicità artefatta e indotta da droghe legalizzate. Si tratta si una società costruita ad hoc per tenere gli individui lontani dalle sofferenze, da quei sentimenti che inducono a interrogarsi sui perché: ma non si tratta, chiaramente, di una vera felicità quanto piuttosto di un appiattimento delle emozioni; una gioia superficiale adombrata da apatia e abulia. Un perenne stato di silente assuefazione.

Il mondo nuovo, per quanto distopico e irreale, può ben ricollegarsi all’analisi che in Happycracy viene fatta della nostra contemporaneità. Questo saggio discute sull’idea di base che, con l’egemonia del consumismo, si è cercato di orientare l’individuo a soggetto felice, in maniera categorica. Per farlo sono state messe in atto vere e proprie strategie di mercato, alcune avallate da una validità pseudo scientifica e pseudo psicologica. Nasce, così, quella che è chiamata psicologia positiva, la branca di pensiero che ha dato il via a tutti i guru della felicità, i life-coach della mindfullness che spronano i singoli a migliorare la propria vita attingendo a nient’altro che alla propria volontà.

A seguito della nascita di questa nuova disciplina, ad opera di Martin Seligman, dicono gli autori del libro «in meno di un decennio si decuplicarono gli studi accademici sulla felicità e sugli argomenti correlati (…) e che non si limitarono al campo psicologico, ma toccarono molti altri settori, fra cui economia, commercio, istruzione, terapeutica, sanità, politica, criminologia, scienze dello sport, benessere degli animali, design, neuroscienze, discipline umaniste e management». Una mossa pianificata a tavolino, come nella società di Huxley, che è andata ad alimentare un mercato economicamente proficuo.

La formula della felicità

La felicità, diventata obiettivo primario, è stata così declinata a parametro misurabile tramite una formula fornita da Seligman stesso: H= S+C+V. H (Happyness) rappresenta la felicità che risulta dalla somma degli altri fattori. S (Set range) è la quota fissa, ovvero le barriere che si pongono tra noi e il raggiungimento della felicità (che possono essere di natura genetica o emotiva); C rappresenta le circostanze della vita e V i fattori che dipendono dal nostro controllo. È facile intuire come tale formula sia il risultato di una visione del tutto personale della felicità e delle circostanze legate al suo raggiungimento.

«questa formula, la cui scientificità è tutta da dimostrare, esprime i tre presupposti principali su cui la psicologia positiva si basa per definire il concetto. Primo: la felicità è per il 90 per cento legata a fattori di tipo individuale e psicologico. Secondo (che contraddice il primo): la felicità è acquisibile, padroneggiabile e modificabile attraverso la scelta, la forza di volontà, il miglioramento personale e le giuste conoscenze. Terzo: le variabili extra-individuali hanno un ruolo molto marginale, per chiunque. A tal proposito Seligman si affretta a chiarire che la differenza sta nel modo di percepire le circostanze esterne, e non nelle circostanze “tesse”».
(Happycracy, E. Cabanas, E. Illouz)

È evidente come il ragionamento di Seligman sia frutto di una visione limitata nonché privilegiata. Com’è pensabile asserire che la soluzione risieda nel nostro modo di percepire le circostanze esterne se queste sono a noi sfavorevoli? Non occorre fare esempi iperbolizzanti e tragici, ma realissimi, per rispondere a questa domanda. Il punto di vista di Seligman riflette tutta la mancanza di empatia tipica della positività tossica. Non è necessario procedere per tutta l’analisi del libro di Cabanas e Illouz per capire quanto siano fallaci e illusori i ragionamenti che ripongono esclusivamente nella forza interiore del singolo la soluzione a problemi emotivi e di salute mentale.

Individualismo e svalutazione del dialogo

La positività tossica, derivato della psicologia positiva di Seligman, non tiene conto di variabili importanti come l’inconscio e la collettività. Più precisamente essi vengono tenuti in conto, ma in modo errato. Mentre l’inconscio e le emozioni sono considerati fattori controllabili, la collettività, di contro, non ha un ruolo preponderante. La psicologia positiva, così come la positività tossica e i derivati del mercato della felicità, non prendono in esame l’individuo come “elemento” inserito in un contesto sociale che ha, su di lxi, un impatto non trascurabile.

Queste ideologie, inoltre, svalutano l’importanza cruciale del dialogo con l’altrx, sia essx unx psicologx, unx conoscente o amicx. Se, infatti, la soluzione all’infelicità è dentro di noi, i sentimenti di empatia, condivisone e sympatheia sono totalmente messi da parte e, con essi, il ruolo del prossimx, di una comunità a cui rivolgerci per sentire meno il peso della sofferenza. In questa visione l’altro assume una funzione puramente riempitiva, come nel Mondo nuovo di Huxley: qualcuno con cui condividere la superficialità delle cose e nulla più.

Abbattere i tabù: è fondamentale

È davvero desiderabile una società di questo tipo? Siamo davvero così spaventati dal dialogo sulle emozioni, dalla malattia mentale, che preferiamo l’assuefazione a una felicità di facciata, piuttosto che aprirci alla comprensione, allo scambio e all’aiuto reciproco?

«la preoccupazione di vivere bene (…) cede sempre più il passo alla preoccupazione di sopravvivere»
(Byung-Chul Han, La società della stanchezza)

È, inoltre, fondamentale ribadire il fatto che patologie come la depressione non possono in alcun modo essere surclassate a mera tristezza. Si tratta di condizioni psicologiche che richiedono aiuto specifico e non banalizzazioni. È necessario aprire un dialogo sullo spettro delle emozioni; abbattere il tabù che circonda la salute mentale; buttare giù il muro dello stigma, per aprici alla comprensione e all’aiuto di chi, per colpa di pregiudizi, continua a soffrire nel silenzio e nell’indifferenza. La fragilità è parte di tuttx noi, una parte essenziale. Evitare di riconoscere i sentimenti considerati negativi, evitare di parlare adeguatamente di salute mentale, significa castrarci come individui, essere meno umani.

[Credits immagine in evidenza: dal blog Self-love & Shit]

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