Questo corpo e la pandemia

Uscirò e far prendere aria a questo corpo, cercando di dargli un senso per qualche ora. Cercando qualcosa che lo faccia sentire vivo.

Oggi mi sono truccata un sacco, senza motivo. Glitter, rossetto, eyeliner, all the extra baby. Ho indossato una maglia nera di pizzo. Ho fissato a lungo la mia faccia allo specchio. Ho spinto i polpastrelli sugli occhi, poi sulle tempie, mi sono messa due dita tra i denti mordendomele forte. Poi mi sono spogliata di nuovo e ho osservato il mio corpo per quello che mi è sembrato un tempo incalcolabile. Ho cercato di definire il mio corpo nella mia testa, di calcolarne i confini esatti, di intrappolarlo nel mio sguardo per sentirlo mio, per sentirmi io. Che strano, questo corpo. Io non lo capisco, vorrei sentirlo di più e allo stesso tempo non sentirlo affatto. Non vorrei sentirne i bisogni, i gorgoglii, i battiti, i succhi che salgono e scendono, il pizzicare del sangue tra le vene. Vorrei diventasse vapore di stelle, aria leggera, vuoto cosmico. Vorrei diventasse turgido e completo, perfetto, reale, definito una volta per tutte.

Quale fra le due cose voglio davvero?

Mi sono rivestita. Sesto caffè. Quarta sigaretta, ed è ancora mattina. No che non ho fame, ma la sento la fame. Che schifo, sentire. Ma che bello, sentire. Che schifo questo ammasso di bisogni e liquidi. Che bella questa trama di desideri e possibilità.

È da tempo che non stavo così. Dentro me so che quando inizio ad iperfissarmi con il mio corpo e a non percepirlo più – o percepirlo troppo, che è praticamente la stessa cosa – allora sono cazzi amari all’orizzonte. Amore mio, non so chi tu sia, ma strappamelo via, questo corpo. Poi ridammelo. Che disastro. Che disastro anche scrivere così, vorrei poter scrivere in modo più chiaro, frasi di ampio respiro, belle, comprensibili. Non ci riesco, scrivo scrivo scrivo senza sapere quale sia il punto. Lo capite, vero?

Mi fermo, respiro. Va bene, provo a essere più chiara. Ricominciamo, per favore.

Eccomi qui per il solito appuntamento del venerdì, che in genere buco 8 volte su 10, ve lo spiegavo qui, e invece ora sono due settimane di fila che ci sono, incredibile. Per aprire il pc e mettermi a scrivere ho dovuto passare prima 40 minuti in balcone, a fissare il cielo, gli alberi e i palazzi. Ho fatto in modo che una minima porzione di realtà si attaccasse alla mia pelle e ai miei occhi, altrimenti non sarei riuscita. Mentre ero in balcone, ho avuto dei flashback del primo lockdown. Mi sono ricordata di quando una mattina prestissimo, saranno state le 7, ero sempre su questo balcone e ho chiuso gli occhi e pianto in silenzio, mentre le mie coinquiline dormivano ancora, perché la brezza fresca della primavera e il grido dei gabbiani mi avevano ricordato le prime giornate di mare. Il mare presto, quando non c’è nessuno e la sabbia è fredda. Io sono ancora su questo quadrato di cemento sospeso sul vuoto a chiedermi quando finirà tutto questo.

Ce la sto mettendo tutta, mi dico, ma non basta. In queste due settimane ho lentamente sentito le tempie sfaldarsi e il corpo farsi alla mia percezione una cosa fastidiosa. Poi è subentrata la derealizzazione. Poi l’apatia. Poi l’ansia. Poi la depressione. Poi qualche episodio maniacale, non ci facciamo mancare niente. Poi tutto insieme e quando è tutto insieme il risultato è il nulla. Piombo in uno stato catatonico in cui io non ci sono più e ogni cosa che mi ricorda che invece ci sono diventa incredibilmente fastidiosa. Poi ancora momenti di euforia immotivata, adesso mi mangio il frigo, adesso mi scopo il mondo, sono piena di emozioni e devo dirlo a qualcuno, piena di voglia e rabbia e furia e tristezza e odio e dolcezza e bellezza e cattiveria. E poi no, non ho più fame in realtà, no non voglio scopare, non provo niente, non mi interessa niente, rabbia furia odio amore tenerezza tutto è uguale. Si divorano a vicenda e divorano anche me e non so più cosa rimane, dove finisce.

Quale dei due stati preferisco? Io non lo so.

Perché mi sta succedendo tutto questo, ancora? Pensavo di aver raggiunto un minimo controllo, un minimo equilibrio, per quanto precario. Io non so quale sia il fattore scatenante di questa caterva di merda, tutte le volte. Non lo capisco. Però la situazione in cui siamo non aiuta.

Scrivo questo senza filtri, affinché chi legga, chiunque, possa capire di cosa stiamo parlando davvero quando in modo generico diciamo che la salute mentale è un problema serio e la pandemia sta incasinando tutto; quando dico che il lockdown non può essere più la soluzione, l’unica, propinata come tampone di comodo in attesa di migliori prospettive, in attesa di capire cosa fare davvero. Questa roba qui non è più umanamente sostenibile.
Ecco, a costo di sembrare brutale: chiuderci dentro quattro mura a fare i conti con tutta questa merda qui, lasciatx solx a noi stessx, come può essere considerato responsabile ed etico?

Un anno di pandemia e siamo ancora qui. Anzi, ora è peggio. Perché prima si viveva nell’idea di una fine, si stringevano i denti magari, persino io l’ho fatto e moltx altrx insieme a me, tra depressioni e deragliamenti vari, chi più chi meno. Ora la fine non si vede, ora sembra un loop e basta. E i loop non fanno bene. Non vedere la fine non fa bene. Constatare ancora come tutto questo oceano di esperienze, vite, sofferenze resti sommerso e taciuto, perché ora ci sono cose più importanti di cui parlare e a cui pensare, non fa bene.

Io non so come usciremo da tutto questo, ma sono stanca anche delle sparate motivazionali e delle narrazioni colme di positività tossica. Non è mio dovere tentare di cavarci del buono da questa situazione e chi sostiene questa retorica sta facendo gaslighting e colpevolizzazione violenta riducendo a problema individuale quello che è invece un problema collettivo.

Io non ne uscirò migliorata da tutto ciò, ma sbattuta indietro anni luce rispetto al mio percorso esistenziale e umano. Sì, ciò di cui non si parla mai, come se fosse tutto sommato irrilevante questo aspetto e se provi ad esplicitarlo sei unx viziatx naive che non pensa alle cose serie.

Questo perché ci dimentichiamo di essere innanzitutto corpi con bisogni e desideri, esseri umani e non macchine, non ruoli sociali. Questo perché salute è una parola ormai svuotata e ridotta a mero meccanicismo, con una visione del corpo biologico come fortino e una retorica da Ministero della Difesa.

Ecco, alla fine ho scritto una cosa comprensibile, almeno. Forse addirittura qualcosa di politico.

Lunedì il Lazio entra in zona rossa. Io domani mi truccherò di nuovo molto extra, glitter, rossetto, eyeliner. Mi rimetterò la mia maglia di pizzo nero, o forse un’altra ancora, non lo so. Uscirò a far prendere aria a questo corpo, cercando di dargli un senso per qualche ora. Cercando qualcosa che lo faccia sentire vivo. E mi terrò stretta questa sensazione nei giorni che verranno. E davanti allo specchio, mentre lo guardo, stavolta gli dirò coraggio, coraggio, che tra un po’ si va al mare.

[Illustrazione: Shaza Wajjokh]

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