Salvarsi dall’inferno dei viventi: una storia di libri

Il 19 settembre 1985 ci lasciava Italo Calvino, uno dei più grandi scrittori italiani. Sono cresciuta leggendo i suoi romanzi, sognando, ridendo e piangendo su quelle pagine che talvolta mi hanno detto troppo, altre apparentemente troppo poco, ma «attorno all’assenza si costruisce ciò che c’è», mi ha spiegato poi lui con calma, mentre trattenevo il respiro. Calvino mi ha insegnato a domare il vuoto, a dargli un senso e che sia solo sulla pagina, lo sa e lo so, è insufficiente forse, ma è già qualcosa. Un tassello nel Caos, un piccolo spazio di resistenza alla fragilità dell’esistere. La vita è sempre altrove, sempre oltre la pagina, lo sa e lo so. Ma è qui il potere della scrittura, della letteratura: limare quel nulla, inventare per noi una vita altra quando questa ci sembra impossibile da vivere. Pensavo fosse codardia. Calvino mi ha insegnato che può diventare antidoto, l’intangibile punto di partenza, il rettangolo vuoto attorno a cui si dispongono le carte della storia.

Ho saltato da un ramo all’altro in compagnia di Cosimo, scoprendo con lui cosa significa crescere e innamorarsi; ho imparato a riconoscere, interrogare e infine ricucire insieme le mie due metà, ché l’una chiama l’altra e non possiamo farci niente; ho brandito stendardi e indossato armature, rivestendomi di sprezzante durezza, bugie e fantasie, per poi liberarmi di tutto, capelli e seno al vento, per andare incontro al Futuro – «tu malpadroneggiato, tu foriero di tesori pagati a caro prezzo, tu mio regno da conquistare, Futuro» – e ogni giorno leggo queste parole su un foglio stropicciato poggiato sulla mia scrivania e mi ricordo che quando l’ho scritto era l’inferno e oggi, sì, oggi un po’ meno.

Ho imparato ad essere leggera, rapida, esatta, visibile, molteplice.

Ho viaggiato per città spaventose e meravigliose, ponti costruiti al contrario, ragnatele umane, mura sfavillanti, silenzi e desideri che diventano grida assordanti, per poi approdare nella mia città, trovata appena sopra quella in cui vivo, a margine, nascosta nelle pieghe e nei segni, una città fatta di metafore e simboli, pezzi di esistenza, dolori e sfide, la città che ha dato una risposta alle mie domande. Ho conversato con Marco Polo e Kublai Khan, ho pianto di terrore riconoscendo in me la paura del Grande Imperatore: «tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale» − la città infernale sono io, sono io, la spirale è dentro di me, sento la corrente risucchiarmi dalle viscere − e ho pianto poi di gioia davanti alla risposta di Polo, da quel giorno divenuta bussola nell’inferno dei viventi, perché ci vogliono attenzione e apprendimento continui «per cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». Dentro di me, attorno a me. Saper riconoscere, curare, donare tempo e spazio. Quel che dentro me non è inferno c’è, quel che attorno a me non mi abusa e fa a pezzi c’è, devo solo saperlo riconoscere e farlo durare il più a lungo possibile.

Quale futuro per me? Ci sarà mai una città-casa, un luogo sicuro in cui so-stare, pienamente? Interrogativi di chi si trascina dietro, da una vita (quanta vita in 27 anni?) il peso di essere stato generato al contrario, accompagnato da un demone inquieto. Ho trovato tra le pagine di Calvino la mia dichiarazione alla vita, il mio contratto con essa. La promessa fatta da me a me di non smettere mai di cercarla, quella città, quella casa, nonostante talvolta mi manchi ancora il respiro e le ombre prendano il sopravvento; la promessa di non rinunciare mai ad osservare meglio l’Atlante, gli angoli della strada, le contraddizioni che ci rendono umani, le carte sparse sul tavolo.

«Per questi porti non saprei tracciare la rotta sulla carta né fissare la data dell’approdo. Alle volte mi basta uno scorcio che s’apre nel bel mezzo d’un paesaggio incongruo, un affiorare di luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che s’incontrano nel viavai, per pensare che partendo di lì metterò assieme pezzo a pezzo la città perfetta, fatta di frammenti mescolati col resto, d’istanti separati da intervalli, di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie. Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla».

…tu non devi credere che si possa smettere di cercarla.

Calvino mi ha insegnato ad essere fiamma e cristallo, allo stesso tempo.
Il potere della letteratura: salvare la gente. E c’è pure chi dice che non serva a nulla.

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