Violenza di genere e giornalismo: non mancano gli strumenti, ma la volontà

I fatti di Caivano ci interrogano ancora sulle responsabilità del giornalismo nel veicolare narrazioni distorte e pregiudizi su transfobia e femminicidio.

Sono giorni che mi rigiro tra le mani, nervosamente, il dolore per la violenza che si è riversata sulle vite di Maria Paola Gaglione e Ciro Migliore (in foto), la cui relazione è stata brutalmente spezzata dal fratello di lei, Michele Antonio, che ha speronato lo scooter su cui viaggiavano i due provocando la morte della sorella e accanendosi poi sul compagno, fortunatamente sopravvissuto. Michele è l’ennesimo uomo-padrone cresciuto con la convinzione di poter disporre della vita di una donna. Non solo: l’ennesimo uomo figlio “sano” di una cultura tossica, votata all’odio e alla cecità, incapace di accettare che un ragazzo transgender non sia un abominio, né un essere “malato”, ma una persona con la sua dignità. Che può amare ed essere amata.

Sono qui, a rigirarmi tra le dita ansiose anche l’ipocrisia di una società che, se da un lato piange pietosamente e s’indigna, dall’altro continua ad autoassolversi, a rimandare all’infinito il momento in cui occorrerà farci qualcosa con quest’eredità malconcia, darle un nome, guardarla in faccia e farci i conti.

Quali parole mancano per parlare di violenza? Quali strumenti? Perché sembra ancora così difficile?

Michele ha ucciso Maria Paola in quanto donna la cui libertà e autonomia non sono state riconosciute: è femminicidio. L’ha uccisa perché non accettava il compagno transgender, Ciro, già minacciato diverse volte secondo le testimonianze della famiglia: è transfobia. Sono queste le parole. Insieme a maschilismo, cultura patriarcale, machismo, mascolinità tossica, eteronormatività. Quando questi termini entreranno nei nostri vocabolari, senza benaltrismi, vittimismi e autoassoluzioni di sorta, quando sapremo dare loro una risposta davvero comunitaria e condivisa, allora avremo iniziato davvero ad affrontare il problema alla radice.

Quello di Caivano, dunque, è un fatto che ci interroga, ancora una volta, sulla misoginia e transfobia insite nelle nostre società – perché eredità secolari e per certi versi ancora rese invisibili, mai esplicitate – e sull’urgenza disperata di un cambiamento prima di tutto culturale rispetto alla violenza di genere e alla sua percezione. Rispondere alla domanda «perché è successo?» sembra per molt* un compito ancora impossibile, eppure sono decenni che saperi e consapevolezze vengono prodotte affinché la radice di quella violenza sia riconosciuta e dunque combattuta, trasversalmente. Saperi, consapevolezze e lotte che però vengono puntualmente ignorati, spesso volutamente.

Ed è questo il problema. Come possiamo pensare di sradicare quell’odio dalle nostre comunità se continuiamo a fare mea culpa solo a tragedia avvenuta? Se non ci preoccupiamo del prima, del mentre, del sostrato su cui quell’odio germoglia e si propaga? Se continuiamo a creare mostri folli o “bravi ragazzi che hanno sbagliato” e a restituire narrazioni completamente distorte, che finiscono per veicolare quegli stessi pregiudizi che normalizzano la violenza contro le donne e chiunque esca fuori dall’eteronormatività e dalle logiche binarie patriarcali?

Basta buttare uno sguardo alla spazzatura prodotta dalla stampa mainstream in questi giorni per avere chiara percezione di quanto grave sia la situazione in termini di consapevolezze condivise e sedimentate. Davanti ai nostri occhi si è rivelato, ancora, un mondo dell’informazione totalmente impreparato nel trattare eticamente la violenza di genere. Viene fuori non solo un’imbarazzante disattesa della deontologia propria del mestiere – con il fioccare di pezzi acchiappalike, pietistici, morbosi, irrispettosi – ma una strutturale e gravissima ignoranza sulle dinamiche della violenza che ha ucciso Maria Paola e ferito nel corpo e nell’identità Ciro.

Così, succede che la violenza di genere viene ricondotta nella cornice fuorviante della periferia trascurata e “incolta”, invece che analizzata come parte integrante della nostra cultura e società. Il gesto di Michele descritto come l’agire di un uomo deviante incapace di controllare la sua rabbia, piuttosto che il frutto di ciò che respiriamo quotidianamente, dai banchi universitari alle aule parlamentari, dai social agli studi televisivi: in tutto ciò che la nostra cultura intrisa di residui patriarcali e modelli relazionali tossici produce, nega, silenzia.

Ciò è particolarmente evidente in come la stampa ha parlato di Ciro Migliore, appellato al femminile – “Cira“, “compagna“, “donna che si sente uomo“, o addirittura “amica gay“- o con il dispregiativoil trans“/”la trans“, cadendo nel paradosso di assecondare il pregiudizio dell’assassino, che mai ha riconosciuto Ciro come un ragazzo («quella là l’ha infettata», avrebbe dichiarato). E ancora c’è chi ha parlato di relazione LGBT, lesbica, gay, mostrando una totale ignoranza sulle distinzioni tra sesso biologico, identità di genere e orientamento sessuale.

https://www.facebook.com/qu33rriot/posts/605272190351790

Possibile che, nel 2020, chi si occupa di informazione non abbia ben chiaro che misgendering e uso del deadname di una persona transgender siano gravissime violazioni della sua dignità? Ecco, quando arriviamo al punto in cui devono essere gli/le utenti a istruire te – giornalista – su queste questioni, direi che è giunto il momento di farsi due domande. E soprattutto: se anche dovesse essere pura ignoranza, laddove non vi sia malafede (e c’è!), possiamo continuare a giustificarla? Io non credo.

Oggi abbiamo gli strumenti per educarci a riguardo, di facilissima fruizione. E questo vale per chiunque, ma a maggior ragione per giornalisti/e e professionisti/e dell’informazione, perché, tra le altre cose, avrebbero anche il compito di essere loro stess* collegamento tra quei saperi e strumenti e i/le cittadin*. Se fossero meno impegnati ad assecondare i tempi social e le agende politiche varie, forse si tornerebbe a praticare un giornalismo sano, al servizio della comunità, che non sia un semplice megafono del pensiero dominante, ricerca di consenso o pappetta paternalista.

Codici e documenti per una corretta informazione nel trattare la violenza di genere sono disponibili da anni: Convenzione di Istanbul, Manifesto di Venezia (2017), le linee guida dell’IFJ, per citarne alcuni. Percentuale di applicazione? Quasi nulla. E per quanto riguarda l’uso delle terminologie corrette nel parlare di persone transgender e transfobia, penso ad esempio al Trans Media Watch Italia, ma anche alle centinaia di collettivi, associazioni, reti di attivismo sparse sul territorio italiano che ogni giorno si spendono per divulgare consapevolezze e narrazioni sane. Penso agli/lle attivist* che quotidianamente offrono tempo e competenze gratuitamente per fare quel lavoro rieducativo ed emotivo che spetterebbe ad altri o almeno andrebbe suddiviso equamente e supportato. Che dite, è il caso di cominciare?

D’altronde, tutto questo non ci meraviglia. Cosa ci aspettiamo da un Paese in cui invece di finanziare e riconoscere il valore culturale e sociale delle Case delle donne – tra i luoghi di produzione di quei saperi – esse vengono chiuse, definanziate e criminalizzate? Cosa ci aspettiamo da un Paese in cui i gender studies sono ancora considerati un campo del sapere inutile, motivo di scherno per chi si ne occupa? Quali pretese di correttezza dovremmo avere da un Paese in cui esistono movimenti e partiti dichiaratamente misogini e omobitransfobici, in cui si permettono manifestazioni d’odio in quanto “libertà d’espressione”, in cui le soggettività transgender entrano nella comunicazione pubblica e fanno notizia solo nella cornice della criminalità e della violenza e in quanto vittime? Un Paese in cui l’educazione di genere ed emotiva nelle scuole è ostacolata e demonizzata anche dalle istituzioni?

E allora, giornalisti e giornaliste, è vostro compito avere gli strumenti adeguati e le formazioni per parlare di violenza di genere, al fine di decostruirla e generare consapevolezze utili per superare questo stallo della civiltà in cui siamo incagliati da secoli. E’ vostro compito riportare analisi sistemiche delle strutture di potere che permettono il perpetrarsi di quella violenza. Altrimenti non ne usciamo e il giornalismo perde la scommessa con la sua vocazione profonda: essere serbatoio e produzione di democrazia e comunità, fornendo alla società tutta i saperi per analizzare e comprendere se stessa. In questo processo siete immersi e immerse anche voi, perché cittadini e cittadine come tutt*. Documentatevi, andate da chi può educarvi, pretendete il rispetto dei codici deontologici nelle vostre redazioni, partecipate a convegni di formazione, recatevi nei luoghi in cui saperi, analisi e strumenti vengono prodotti tutti i giorni, basta fermarsi e ascoltare.

Ecco, forse è da qui che dovremmo ripartire. Perché non basterà nemmeno una legge, dovesse diventarlo, ad arginare questa violenza. Per quanto utile in questo momento storico, la soluzione definitiva non è certo quella giuridica e repressiva. Servono decostruzioni, cultura, educazione. Serve ripartire dai perché e dai come. Serve guardarci in faccia come società e chiederci dove vogliamo andare. E in questa percorso abbiamo bisogno assoluto di nuove narrazioni, di un giornalismo differente.

Perché è chiaro che a mancare non sono certo gli strumenti, ma la volontà.

***

Vi lasciamo con una nota positiva, perché su Aware ci piace sempre proporre bellezza ed esempi contronarranti, che stimolino empatia, cambiamento, avvicinamento, ricerca di uno sguardo altro e riappropriato. #Guardami è una campagna di visibilità per persone trans*, intersex, non binary e non conforming, da un’idea di Ethan Bonali.

https://www.facebook.com/media/set/?vanity=101823551632760&set=a.108040594344389

***

_Femminismi, gender, LGBTQ+, cultura di genere: per altri articoli clicca qui

_Poesie, storie, racconti di quotidiana bellezza, resistenza, scoperta: le trovate cliccando qui

_Segui Aware anche su Facebook e Instagram

Non perderti nemmeno una briciola di bellezza resistente.